Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca

La scuola e le disuguaglianze

Nonostante le speranze riposte nell’istruzione pubblica come momento di inclusione, la scuola spesso non raggiunge lo scopo. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Luciano Benadusi, Orazio Giancola, Barbara Bertoncin

L’interrogativo se la scuola attenui, riproduca o addirittura aggravi le disuguaglianze è stato a lungo discusso. Nell'Ottocento lo statunitense Horace Mann propose una visione ottimistica teorizzando la scuola come “great equalizer”. In realtà, le evidenze raccolte nel '900 hanno dimostrato come l’istruzione sia riuscita a superare le disuguaglianze solo in alcuni casi e ad alcune condizioni. Nei decenni a seguire è iniziata infatti una fase di pessimismo, in cui alcuni sociologi sono arrivati a parlare della scuola come un fattore essenzialmente “riproduttivo” delle disuguaglianze. Noi crediamo che la risposta sia mediana: da sola la scuola non è in grado di costruire una società giusta; una società giusta ha bisogno di un’alleanza tra politiche sociali e politiche educative. Solo se si rende più egualitaria e inclusiva la società, anche la scuola può contribuire.

Dal 1946 in poi il nostro paese ha assistito a una crescente partecipazione, almeno ai livelli di scuola primaria e secondaria. Tant’è che possiamo parlare di scuola di massa; c’è stata anche un’inclusione fortissima delle donne, che prima erano escluse dal sistema educativo.

Dobbiamo però registrare alcuni fenomeni di arretramento, rispetto agli ultimi decenni. Per esempio la crisi del 2008, che da noi è arrivata nel 2010-2011, si è riverberata in modo consistente sugli abbandoni scolastici. In pratica, si fanno i primi due anni delle superiori, poi, raggiunta l’età dell’obbligo, si esce. Ecco, il fenomeno dell’abbandono, che era andato riducendosi, all’improvviso è risalito. Ancora non sappiamo cosa succederà in una fase post-pandemica, ma dalle ricerche che abbiamo condotto emergono dati preoccupanti. La scuola si trova in una sorta di rincorsa disperata: mentre cerca di includere esplodono sempre nuove disuguaglianze.

Per esempio, per gli studenti cosiddetti non nativi, le prime e seconde generazioni, i divari tecnologici hanno un peso consistente, che la didattica a distanza ha fatto esplodere. Per esempio, i ragazzi che avevano lo smartphone, ma non un computer, potevano ascoltare la lezione, ma non interagire in forma scritta né partecipare ai test, ai compiti e così via. Emergono poi differenze tra i territori, che non si sono attutite. Anzi, se prima avevamo una differenziazione Nord-Centro-Sud, ora, grazie a elaborazioni più raffinate, rileviamo differenze all’interno del Nord, dei vari Centri, dei vari Sud, differenze tra grandi e piccoli centri e zone interne.

La scuola ha fatto uno sforzo titanico di inclusione, ma si porta dietro un fardello di disuguaglianze che da sola non può affrontare. Se vivi in una famiglia nella quale non ci sono libri, in un territorio senza biblioteche e così via, beh, a quel punto la scuola non può supplire da sola le deficienze delle politiche culturali.


La scuola non basta

L’ideologia della scuola levatrice di una società egualitaria e inclusiva è fondamentalmente americana. Laggiù si è sempre pensato che non ci fosse bisogno di rendere più eguale la società attraverso il welfare e lo strumento fiscale per combattere le disuguaglianze: bastava la scuola. Questa ideologia nel tempo è entrata in crisi. Se si guardano i dati, nella graduatoria dei paesi che sono riusciti a creare eguaglianza delle opportunità educative e mobilità sociale, gli Stati Uniti sono lontani dai primi posti.

Viceversa, ad aver realizzato maggiori livelli di eguaglianza delle opportunità e di mobilità sociale inter-generazionale sono stati alcuni paesi europei, in particolare quelli nordici, proprio perché hanno messo in campo un’alleanza fra politiche sociali ed educative egualitarie. Purtroppo in quest’ultima fase anche questi paesi hanno registrato dei passi indietro, dovuti all’introduzione di politiche neoliberiste che hanno intaccato, per ora solo in parte, i risultati raggiunti.

In Italia la riforma della scuola media del ’62 è stata una misura anticipatrice e al contempo molto moderata. Altri paesi, soprattutto quelli nordici, hanno realizzato delle scuole comprensive fino al 16° anno d’età e anche oltre. Questo è un punto importante, perché prima si effettua la scelta dei percorsi, più conta l’origine sociale. Attenzione però: ritardare la scelta non deve significare applicare una sorta di appiattimento dei percorsi comprensivi.

I paesi che hanno più ridotto le disuguaglianze hanno adottato il modello comprensivo in senso parzialmente differenziato, attraverso cioè una riforma didattica capace di andare incontro alle diverse esigenze e ai diversi stili di apprendimento degli studenti. Questo in Italia non è accaduto. Qualora si volesse riprendere il processo di comprensivizzazione, realizzando un biennio strutturalmente unitario dopo la scuola media e arrivando quindi ai 16 anni, questo dovrebbe essere non uniforme ma didatticamente differenziato.

Recentemente abbiamo condotto un’indagine sui paesi che meglio sanno conciliare equità e ed efficacia, cioè buone performance. Ebbene, ai primi posti abbiamo individuato il Canada, la Danimarca e la Finlandia. Pare che siano tre gli elementi che legano questi paesi così eterogenei tra loro. Il primo è un’elevatissima spesa pubblica in istruzione. Il secondo è l’allungamento del tronco comune: in nessuno di questi paesi si sceglie prima dei 16 anni.

Prendiamo il caso italiano: a 14 anni un ragazzo si trova a scegliere tra liceo, tecnico o professionale, oppure l’apprendistato per l’obbligo formativo che certe volte diventa una sorta di trappola sociale per i ragazzi che non ce l’hanno fatta. Ecco, chiediamoci se a 14 anni a scegliere sia il ragazzo o la famiglia. I tre paesi che ho citato hanno scelto di spostare in avanti il momento della scelta.

Terzo elemento, questi paesi hanno lavorato sul curricolo scolastico, prevedendo una base comune di conoscenze che valgono per tutti, in cui sono incluse la lingua nazionale, la matematica, le scienze umane e sociali, la lingua straniera, l’informatica, ecc: una sorta di pacchetto base che rende lo studente sufficientemente forte per raggiungere i livelli minimi o anche più elevati di competenze. Poi, accanto a questo pacchetto di base, c’è spazio per l’individualizzazione con un’offerta didattica in cui lo studente può seguire le proprie inclinazioni.

Altra questione: ogni studente ha i propri tempi, e rispettare e accompagnare la differenza dei tempi di apprendimento è essenziale. A questo scopo, in Danimarca hanno eliminato la bocciatura. Nel caso finlandese c’è un'esperienza molto interessante di responsabilizzazione dello studente, una sorta di educazione alla cittadinanza attiva, al rispetto dei beni comuni. Per esempio, gli studenti gestiscono insieme all’insegnante lo spazio scuola, sono responsabili dello spazio nel quale vivono.

Ancora, nel caso del Quebec canadese c’è stato uno spostamento dalle materie in senso classico, passando a un ragionamento per competenze, quindi per nuclei di sapere e di saper fare, che sono più trasversali. È chiaro che una politica di questo tipo richiede degli interventi seri sulla professionalità insegnante, sulla ristrutturazione del sistema di governance delle scuole.

Dunque, esempi ce ne sono tanti, tenendo però presente che non è detto che una prassi funzionante nel contesto A vada bene anche nel contesto B. Trapiantare da un luogo a un altro non sempre è possibile perché ci sono le specificità delle nazioni, dei territori e così via. Però possiamo confrontarci.

Da una scuola all’altra

Ancora qualche considerazione sulla situazione italiana. Noi registriamo un’area critica dal punto di vista dell’uguaglianza nel sistema scolastico: quella che va dall’inizio della scuola media al primo biennio della secondaria superiore. Essa consta di due passaggi importanti. Il primo è quello tra elementare e media: significa passare da un mondo dove i saperi sono integrati a uno in cui invece sono sezionati e frammentati su una base disciplinare; e anche da un rapporto tra insegnanti e studenti personale ed emotivamente intenso a uno più impersonale e rigido. Esiste dunque uno scalino. Le ricerche comparative ci segnalano come più egualitari quei sistemi scolastici che hanno realizzato una integrazione strutturale non solo orizzontale (il “tronco comune”), ma anche verticale. Nel senso che tra elementari e medie non esiste la discontinuità che crea lo scalino, esse sono integrate all’interno dello stesso ciclo di base. Modelli curricolari, formazione e cultura degli insegnanti e clima educativo sono più omogenei.

Il secondo passaggio critico è quello dalla media alle superiori: gli studenti vi arrivano avendo già accumulato delle disuguaglianze di performance importanti, sul piano sia territoriale che sociale. Gli studenti che hanno ottenuto i risultati più scadenti passeranno agli indirizzi tecnico-professionali. Quelli che hanno ottenuto i risultati migliori, che si trovano nelle aree più forti e provengono dalle classi sociali più elevate, passeranno ai licei.

A questo punto cosa succede? Che chi si iscrive agli indirizzi tecnici e professionali non ha acquisito un buon bagaglio di competenze di base, che comprende non solo la lingua e la matematica, ma anche più in generale le competenze cognitive. Le disuguaglianze si accrescono così a “palla di neve”. Infatti i nostri indicatori (Pisa, Invalsi, ecc.) registrano dopo un biennio, all’età di 16 anni, disuguaglianze e deficit di competenze di base ancora più vistosi. Per cui una parte del nostro corpo studentesco ha dei risultati comparabili con quelli dei paesi più avanzati sul piano internazionale, e un’altra parte si allinea con paesi al disotto della media Ocse, quali ad esempio il Qatar o il Messico.

Questo divario conferma che per combattere le disuguaglianze è essenziale che ci siano dei traguardi in termini di competenze di base, una soglia minima il cui raggiungimento venga assicurato a tutti. Uno zoccolo duro che va garantito prima che ciascuno venga chiamato a scegliere la propria strada.

* * *

Luciano Benadusi, già ordinario presso la Sapienza di Roma, è sociologo dell’educazione. È direttore fondatore della rivista “Scuola democratica-Learning for Democracy”.

Orazio Giancola, professore associato di Sociologia dei Sistemi educativi alla Sapienza di Roma, ha condotto ricerche e pubblicato numerosi lavori sulla sociologia dell’educazione, le disuguaglianze educative e sociali, le politiche educative e universitarie, nonché su metodi e tecniche per la ricerca sociale e valutativa.