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QT n. 6, giugno 2021 Servizi

La gestione insensata dei corsi d’acqua

Fiumi ridotti a canali, sponde malamente “ripulite” e acque addomesticate e sfruttate senza necessità. Perché la natura, se non serve immediatamente al turismo, è un intralcio

Predazzo, località Mezzavalle: lavori sull’Avisio

Per i nostri corsi d’acqua, tutti, siamo alla disfatta, in Italia come nel Trentino. Sono stati trasformati in canali utili a lasciare scorrere via l’acqua, si, proprio via. Non è più importante goderne della vista, dei suoni e delle tante vite che l’acqua ospita e alimenta. Deve scorrere via, veloce. In questa logica è caduta perfino una attenta giornalista come Milena Gabanelli, che il 13 aprile scorso, su Rai 3, diceva che “l’acqua che scorre è inutilizzata”.

In provincia di Trento padroni assoluti della gestione dei corsi d’acqua sono i bacini montani e la Protezione civile, in assenza totale di partecipazione e informazione pubblica. Certo, a questi servizi vanno riconosciuti i lavori svolti per garantire sicurezza agli abitati e alla viabilità. Ma se oggi i torrenti e perfino i piccoli rivi ospitano ruspe e le acque sono imbrigliate per permettere la costruzione di argini sempre più alti e fare posto al cemento, qualche domanda dovremmo pur porcela.

In val di Fiemme l’Avisio era stato sconvolto dal 1987 al 1991 nella costruzione della strada di fondovalle: oggi è un canale diritto, privato di ogni masso erratico, non vi è più traccia delle nicchie naturali che tre secoli fa ospitavano il castoro e fino agli anni ‘60 del secolo scorso la lontra. Per ritrovare una parvenza di naturalità ci si deve portare sotto la diga di Stramentizzo, fino a Lavis. La Brenta e il Noce hanno subito identica sorte e sono ancora oggetto di attenzioni discutibili.

Quello che stupisce in queste valli è il silenzio dei residenti, non si sa se rassegnato o inconsapevole, perfino dei pescatori, più occupati a conteggiare permessi d’ospite che altro. Eppure nel recente passato erano stati istituiti dei parchi fluviali grazie alle pressioni di decine di cittadini. Solo dal basso Sarca si leva una forte e tenace protesta. Altrove i residenti sembrano addomesticati dalla cultura dell’ordine (cioè della regolarità), della semplificazione, della “pulizia” che ha spazzato via, oltre alla vegetazione riparia e alla microfauna, la capacità di osservazione e riflessione, cioè la conoscenza, la consapevolezza che un corso d’acqua è qualcosa di complesso.

Dalle alluvioni ci si difende costruendo argini, o imponenti briglie, spesso disposte in serie. Gli alberi, la vegetazione? Sono un caos: fanno bene i bacini montani a tagliare a raso. Le alluvioni avvengono “perché il legname e le piante fanno diga”. I danni sono sempre più gravi e frequenti non perché piove più violentemente, o perché le ciclabili vengono costruite sulle rive dei torrenti, o perché, oggi come ieri, si sono concesse deroghe scandalose all’edificazione in prossimità dei corsi d’acqua, ma perché gli ambientalisti impediscono le escavazioni delle sabbie in alveo e il prelievo dei grandi massi (dove sono rimasti…). Se oggi i dirigenti dei bacini montani si impongono con tanta forza è perché sulla gestione dei corsi d’acqua è prevalsa la cultura ingegneristica, quella bene incarnata dalla Protezione civile così come è diretta. Le altre competenze scientifiche, naturalistiche, geologiche e biologiche, sono un disturbo.

Predazzo, località Mezzavalle: lavori sull’Avisio

Un ulteriore appetito si è impadronito anche di tanti amministratori locali: l’acqua è energia rinnovabile. Quindi si torni a riprendere la diffusione delle centraline, anche se producono poco o nulla e servono soprattutto a mantenere qualche progettista (i soliti) e qualche speculatore ben addentro nelle amicizie in Provincia: se oggi è consolidato il malcostume della diffusione delle centraline idroelettriche è solo perché la loro costruzione è premiata da incredibili incentivi statali e europei.

Oggi è più che mai urgente ridare attenzione alla gestione dei corsi d’acqua. Non solo perché in provincia da mesi si promette la revisione del piano di qualità delle acque, senza che questo prenda forma, ma anche per cercare di recuperare le situazioni compromesse, per diffondere opportunità lavorative nella rinaturalizzazione dei corsi d’acqua. Questi non sono sogni di stravaganti utopisti: la Strategia per la biodiversità della Commissione europea prevede entro il 2030 di recuperare allo stato naturale 25.000 chilometri di fiumi.

In Italia, invece, l’attenzione è purtroppo opposta: si continua a cementificare e canalizzare, privando i corsi d’acqua di naturalità e vegetazione spontanea. In Trentino si è pensato bene di impedire alle associazioni ambientaliste di entrare nella governance della Rete delle riserve e parchi fluviali (da parte dell’ex assessore Gilmozzi e oggi, peggio ancora, con Tonina). Questi enti, in teoria a salvaguardia della naturalità, appaiono ridotti a bancomat per la realizzazione di interventi di “valorizzazione” talora anche discutibili sul piano scientifico e tecnico, comunque sempre e solo rivolti al sostegno del turismo. La natura, se non serve nell’immediato al turismo, non interessa: così si preleva sabbia dalla Sarca per portarla nelle spiagge di Torbole o Riva; sono andati in fumo (e non solo per effetto della tempesta Vaia) il rilancio della trota marmorata in Fiemme, come pure l’inserimento di altra fauna ittica scomparsa o rara; sempre più minimali sono i lavori delle scale di rimonta, che permetterebbero il passaggio dei pesci in corrispondenza di sbarramenti artificiali.

I fiumi hanno memoria

Predazzo, località Mezzavalle: lavori sull’Avisio

Certo, comprendere la complessità di un corso d’acqua è impegnativo. Occorre mettere in sinergia équipe multiscientifiche, ricche di competenze diversificate. Investire anche nelle sensibilità sociali e dei territori, quindi contemplare i bisogni della popolazione locale: agricoltura, energia, acqua potabile, industria, sicurezza. Ma anche ricreazione, hobby come la pesca o il canyoning e il rafting, paesaggio, sostegno alle tante forme di vita presenti a partire dalla microfauna per arrivare alla fauna ittica, all’avifauna, alle incredibili associazioni di specie vegetali. L’aver ignorato questa complessità ha reso inadeguati i piani di bacino, e impedito, in Trentino, la stipula dei Contratti di fiume (protocolli giuridici per la rigenerazione ambientale dei bacini idrografici). Anche laddove lo sforzo partecipativo c’è stato, non si sono messe in luce le criticità, anche parziali, tratto per tratto; perché è diverso intervenire su un corso d’acqua che passa in paese o in una campagna libera, in quota o in fondovalle.

Nelle Alpi i corsi d’acqua integri sono ormai ridotti al lumicino, attorno al 5% del totale. Si può recuperare qualcosa? Certamente sì, valutando ad esempio in modo più approfondito come fare gli svasi delle dighe, come alleviare gli sbalzi delle portate e quindi delle temperature delle acque, come e dove recuperare spazi per l’acqua che dalla nostra civilizzazione è stata costretta in una serie continua di canali. Ma soprattutto il legislatore italiano dovrebbe riprendere la normativa europea, cominciando a superare la logica del deflusso minimo vitale degli anni ‘90 (la portata minima d’acqua che, a valle delle dighe, doveva essere mantenuta per permettere la sopravvivenza delle specie ittiche), per passare al più ampio deflusso minimo ecologico.

Certo, c’è un problema culturale. Occorrerà spiegare che un fiume è anche sedimento e che questo va tutelato. E poi che il deposito di massa legnosa in alveo (non le grandi piante) aumenta la diffusione di specie ittiche, rende più abbondante la biomassa e quindi le fonti di riparo e nutrimento; perché le specie viventi nell’acqua chiedono un alveo “sporco”, e invece noi umani investiamo nell’ordine e nella “pulizia” (ad esclusione dei rifiuti).

Certo, i corsi d’acqua sono anche un rischio, un motivo di pericolo per chi abita in prossimità e per chi coltiva i territori. È quindi doveroso non solo aggiornare il piano di qualità delle acque, ma rivedere i piani per l’assetto idrogeologico (PAI), che in Trentino sono inadeguati rispetto alla complessità del territorio. Manca la mappatura e l’identificazione della pericolosità legata alla dinamica d’alveo, e cioè la valutazione dei processi che sono più rilevanti proprio sui corsi d’acqua di minori dimensioni e che portano a valle gravi dissesti, ben visibili sui corsi principali. È necessario mantenere attivo un processo dinamico di studio, monitoraggio, non investire in un solo atto di governo a lunga scadenza.

Ricordiamolo: i fiumi hanno memoria, ritornano, e con violenza, nei luoghi da cui, con operazioni contro natura, sono stati allontanati.

Salviamo quanto resta della Sarca naturale

La spoliazione delle sponde della Sarca

Nello scorso ottobre la Sarca esondava, invadendo anche cantine e piani terra di alcune abitazioni ad Arco.

Quali le cause? Ci sono dubbi sulla gestione dei deflussi della diga a monte, a Ponte Pià, problema che si trascina da decenni; si sta pure ipotizzando che vi sia stato un reflusso nella rete idrica. Insomma, sono da accertare le reali cause dell’inondazione. In compenso, si sono in questi mesi eseguiti lavori di “somma urgenza” facendo tabula rasa di tutta la vegetazione riparia, e non si parla di arbusti, ma di numerosissimi salici piangenti e ontani. Insomma, si è ulteriormente ferito un habitat, un fiume già sfruttato all’inverosimile per le concessioni idroelettriche, si è leso il paesaggio della ciclabile turistica, prima ancora che si siano capite le cause dell’esondazione.

Le associazioni Amici della Sarca, WWF, Comitato Salvaguardia olivaia, Mnemoteca del Basso Sarca, Italia Nostra, Comitato Sviluppo Sostenibile, Rotte Inverse, Ledro Inselberg, stanno chiedendo alla Provincia di fermare immediatamente motoseghe e scavatori per riprendere un progetto esistente scaturito dal processo partecipativo e di indire un confronto pubblico con gli esponenti del Parco Fluviale, della Rete delle Riserve, del BIM. Queste associazioni si sono fatte forza della Carta della Sarca, elaborata dopo un lungo percorso partecipato dal 2009 al 2011 che ha portato alla costituzione del Parco fluviale. Questo allo scopo di esplorare le strade che possono dare sicurezza senza incentivare distruzione.

Al contrario, i processi partecipativi del parco fluviale e della Rete delle riserve sono da tempo interrotti, non vi è più trasparenza e nemmeno informazione, come dimostrano le aggressive risposte agli ambientalisti dell’assessora Giulia Zanotelli e del sindaco di Arco.

Il fiume, nella sua complessità, dovrebbe invece ritornare ad essere l’attore primario delle valutazioni: perché non si riprendono le idee maturate negli anni ‘90, allargando l’area del fiume anche acquistando strisce di terreni privati e riprendendo fasce ripariali boscate?

La rinascita in sicurezza del fiume sarebbe possibile.