Storia di R.
La via crucis di un ragazzo “difficile” in una comunità di accoglienza con qualche problema
Questa è una storia dolorosa. È la storia di R., un ragazzo difficile, caratteriale si sarebbe detto un tempo. A casa litiga continuamente col padre, se la fidanzatina lo lascia reagisce davvero male, spesso risolve i problemi di comunicazione coi coetanei con le mani invece che con le parole. Una rabbia che lui non riesce a gestire lo agita dentro come un vulcano sempre pronto ad esplodere.
Un ragazzo che i genitori, da quando è diventato un adolescente grande e forte, non riescono più a disciplinare. E per questo chiedono aiuto alle strutture assistenziali.
In quel momento per R. comincia un percorso che ha finito per portarlo oggi ad una situazione molto peggiore di quella di partenza.
Il primo passo di questa via dolorosa è la diagnosi che viene all’inizio del 2019 (quando R. ha appena compiuto 15 anni) dalla neuropsichiatria infantile di Trento: il medico parla di disturbo del comportamento. E infatti suggerisce principalmente terapia psicologica, counseling, accompagnamento professionale di R. e della famiglia. Lasciando ai farmaci psichiatrici un ruolo residuale.
R. viene mandato a maggio 2019 in una situazione di tipo casa famiglia che però risulta ben presto insufficiente per lui e fonte di problemi per la struttura.
I servizi sociali trovano allora una nuova soluzione. R. viene mandato ad Arco, ricoverato presso “Il Soffio”, comunità per minori con problemi psichiatrici gravi inserita dentro Villa San Pietro, casa di cura psichiatrica per adulti che, a marzo 2019, aveva avuto dalla Provincia anche l’accreditamento per gestire un piccolo nucleo dedicato ai minori.
La promessa è di una situazione in cui R. possa andare a scuola, essere seguito in modo molto professionale e personalizzato, accompagnato a trovare un po’ di equilibrio.
Una comunità che ospita al massimo dieci tra ragazzi e ragazze.
R. ci arriva a novembre 2019. E per qualche tempo le cose sembrano migliorare. Nonostante da sempre R. sia terrorizzato dall’idea di essere rinchiuso, apparentemente accetta di buon grado la situazione e riesce anche ad andare a scuola. I continui contatti con la famiglia alleggeriscono la situazione. E dentro la struttura R. ha anche trovato una persona di cui si fida, una giovane operatrice che è riuscita a entrare davvero in contatto con lui e riesce a gestire anche i suoi momenti più difficili. R. regge abbastanza bene anche i cinque lunghi mesi del 2020 in cui non può incontrare i genitori a causa del lockdown.
Ma questo fragile equilibrio si spezza un giorno dello scorso autunno quando la “sua” operatrice deve lasciare il lavoro: R. non trova dentro la struttura un altro punto di riferimento e le sue crisi ricominciano.
Un problema prevedibile che invece di essere gestito - affermano i genitori - viene affrontato semplicemente aumentando il carico di farmaci psichiatrici. Va tenuto a mente che R. torna spesso a casa e i genitori ricevono ogni volta un foglio con le terapie da dare al figlio.
Il ragazzo comincia ben presto a mostrare pesanti segni di effetti collaterali. Prima di tutto ingrassa in modo repentino ed esagerato. Mostra una fame compulsiva perenne e incontenibile, biascica le parole così pesantemente da rendere molto difficile capire quel che dice, non riesce a tenere la mascella chiusa e quindi la bocca è sempre semiaperta e ha un tic che gli fa buttar fuori continuamente la lingua dalla bocca. E i suoi movimenti sono rallentati.
R. è un ragazzino disturbato. Ma è tutto meno che stupido.
Comincia a chiedere insistentemente che gli tolgano un po’ di farmaci. Dice ai genitori che sono troppi e lo chiede ai medici della comunità, ma non gli danno retta.
Poi a dicembre dell’anno scorso trova il modo di farsi ricoverare all’ospedale, in psichiatria, con l’intento dichiarato di chiedere ad altri medici di alleggerire la sua terapia.
In quel ricovero, dicono i genitori, lo psichiatra che lo visita resta stupefatto davanti al carico di farmaci e anche al tipo di medicinali usati. Di uno di questi il medico afferma - riferiscono sempre i genitori - che non si può dare ai minori.
Nella lista di R. c’è di tutto: un farmaco per il Parkinson, un antiepilettico, un antinfiammatorio, due antipsicotici, un ansiolitico, un antischizofrenico. E un po’ di Tavor con cui condire il tutto.
Il giovane comincia ad avere anche altri problemi. La schiena gli fa sempre male. E in un fine settimana in cui R. è a casa la madre scopre che il figlio vomita sangue. R. ci dice che la mattina non può mai fare colazione appena alzato perché “spesso vomito”.
Sorvoliamo qui sul racconto della madre di come tutto l’apparato di assistenza sia lento a reagire su una situazione che lei trova in quel momento (siamo a febbraio di quest’anno ormai) della massima urgenza.
Sorvoliamo, perché certamente una madre vede le cose attraverso la lente di un’urgenza assoluta, quando si tratta di un figlio. Ma prendiamo nota che ci vogliono tre mesi prima che qualcuno si decida a far fare a R. una gastroscopia per verificare cosa sta succedendo. Una gastroscopia che rileva seri problemi allo stomaco.
Qui va fatto un inciso. I genitori di R. non hanno in questa fase la patria potestà sul figlio. Su iniziativa dell’assistente sociale il tribunale li ha dichiarati troppo fragili: i litigi di R. col padre sono un problema e la mamma da tempo ha problemi di salute.
Quindi chi decide tutto è un avvocato nominato come suo tutore dal tribunale. Assieme ad assistente sociale e, naturalmente, ai sanitari della comunità.
Questi ultimi, in tempi recenti e dopo molte insistenze della famiglia, hanno capito che qualcosa andava cambiato e il carico farmacologico è stato un po’ ridotto.
E per R. le strutture assistenziali stanno cercando un’altra comunità. Perché ormai lì dov’è non vuole più stare. E anche in un altro luogo non sarà facile per lui: “Non mi fido più di nessuno” ci ha detto. Triste sentirlo da un ragazzo di 17 anni.
Lavorare per la Codess non è facile…
I ragazzi con problemi come quello di R. sono una vera sfida per medici e assistenti sociali. Non ci sono medicine che funzionano come quando si regola la pressione o si fa calare la febbre.
Richiedono professionalità esperte, molta attenzione e molto tempo di chi si dedica a loro. Perché solo un lavoro lento e dispendioso in termini di tempo riesce a conquistare la loro fiducia e può provare a placare anche i momenti difficili che spesso sfociano in crisi di aggressività. L’alternativa, se il tempo non c’è, sono i farmaci per spegnere l’aggressività.
Secondo vari ex dipendenti di Villa San Pietro, dentro cui si trova la comunità “Il Soffio”, ci sono normalmente tre operatori per ogni turno, mentre la notte ci dicono che c’era, fino a qualche mese fa, solo un operatore socio-sanitario. Però la notte è spesso un momento problematico per ragazzi di questo tipo e per questo tutti i dipendenti avevano chiesto alla direzione di poter avere un educatore che facesse da back-up a chi era di servizio. Una richiesta concessa, mentre altre che puntavano ad avere più tempo da dedicare ad ogni ragazzo, come quella di aumentare il numero di operatori per turno da 3 a 5, è sempre stata respinta con la motivazione che era la Provincia a dire di no.
Va chiarito che sia la comunità per i minori che la casa di cura per adulti sono strutture in mano ad un soggetto privato convenzionato con la Provincia: si chiama “Codess Sociale” ed è una cooperativa di Padova. Che però gestisce oltre 200 strutture sanitarie nel nord e centro Italia e nel 2019 aveva in bilancio ricavi per 131 milioni di euro.
Lavorare per la Codess non è facile. Fulvio Flammini, del sindacato di base multicategoriale - un piccolo ma combattivo sindacato di sinistra - ci dice che con la Codess ci sono vertenze sul contratto da applicare: non viene applicato il contratto usuale in Trentino per questo settore, ma un altro che normalmente non si applica alle cooperative sociali e prevede stipendi e condizioni di lavoro peggiori. Ci sono state anche cause, vinte dai lavoratori, per questo motivo. Ma Codess fa una grande resistenza sia sul piano economico che su quello delle condizioni di lavoro.
Condizioni che portano ad una conseguenza molto precisa: un forte turn-over del personale. “Quest’anno - ci dice Flammini - ci sono state 10 persone che se ne sono andate”. Inoltre, continua Flammini, la retribuzione viene calcolata ad ore, un modo irregolare di retribuire i dipendenti che però fa risparmiare sui costi degli stipendi. E poi ci spiega che nelle buste paga spuntano spesso contribuzioni praticamente obbligate per “strani fondi aziendali”. Sappiamo da altre fonti che anche per l’assunzione viene richiesto un contributo a fondo perduto di mille euro per associarsi alla cooperativa.
Codess gestisce la casa di cura per adulti da vari anni, ma la comunità per minori è convenzionata con la Provincia solo da marzo 2019.
In realtà la cooperativa stava chiedendo da qualche anno alla Provincia l’accreditamento e la convenzione, ma la precedente giunta non l’aveva mai concessa.
Abbiamo chiesto perché al precedente assessore alla Sanità, Luca Zeni.
“Avevamo detto no all’accreditamento - ci spiega Zeni - perché la struttura presentava una contiguità con il settore delle dipendenze. E anche perché non avevano nessuna esperienza con i minori psichiatrici”.
Chi doveva vigilare, ha vigilato?
La valutazione della giunta Fugatti è stata evidentemente diversa. Tanto diversa che poi non ha controllato nemmeno che venissero rispettati i parametri stabiliti dalla convenzione.
Uno, molto importante, riguarda il ruolo di coordinatore della comunità minorile.
La Giunta provinciale, nella delibera n. 363 del 15 marzo 2019 con la quale si decide per la convenzione, stabilisce espressamente che il coordinatore deve essere “in possesso di laurea magistrale e master in coordinamento, in alternativa a quest’ultimo, esperienza di coordinamento di almeno cinque anni nell’ambito di strutture di salute mentale, preferibilmente dedicate per l’età evolutiva”. Ma l’attuale coordinatrice della comunità minorile, Irene Bazzoni, è una giovane donna che non ha ancora conseguito la laurea magistrale (sul suo profilo LinkedIn risulta che stia studiando per laurearsi nel 2022). Quanto al master in coordinamento, non sappiamo - anche se logicamente un master segue e non precede la laurea magistrale. Né Bazzoni ha l’esperienza alternativa richiesta. Sempre dal profilo LinkedIn risulta che abbia lavorato come tecnico della riabilitazione psichiatrica - non coordinatore - in una comunità per minori a Parma per 7 mesi e successivamente, per quasi due anni in una comunità per tossicodipendenti. Del resto Irene Bazzoni ha 25 anni. Non c’era per lei il tempo materiale di formarsi al ruolo centrale che oggi riveste.
Per quanto riguarda poi lo psicologo, altra figura espressamente richiesta dal disciplinare, il turn-over è stato pesante: da quando la struttura minorile ha avuto l’accreditamento se ne sono avvicendati quattro diversi.
Ultimo, ma non di poca importanza, il criterio della continuità assistenziale: “Durante la notte e le festività - dice la delibera - è garantita la presenza in struttura, per ogni turno, di almeno due operatori socio-sanitari di cui un educatore professionale, e di un infermiere”.
Come abbiamo visto sopra, la doppia presenza notturna è stata attivata solo su pressante richiesta del personale. L’infermiere poi, raccontano gli ex dipendenti, di notte non c’è e se serve - e serve! - viene chiamato dalla casa di cura per adulti che è, materialmente, dentro lo stesso edificio anche se in aree diverse.
Sono tanti gli aspetti che concorrono a costruire percorsi di cura adeguati. Se quelli della Comunità “Il Soffio” siano corrispondenti alle richieste della Provincia, dovrebbe dirlo l’Azienda sanitaria a cui è demandata la vigilanza. E al cui esito positivo corrisponde il mantenimento dell’accreditamento come struttura sanitaria a cui la Provincia, ogni giorno e per ogni ragazzo ricoverato, paga una retta di 300 euro. Novantamila euro al mese per prendersi cura dei ragazzi più difficili, ma anche di quelli che hanno maggiore bisogno di aiuto e protezione. Quindi ci chiediamo: chi doveva vigilare, ha vigilato?