Il bluff di Sgarbi
La mostra su Raffaello e i contemporanei: pochissime opere, legate da discorsi pretestuosi. Un po’ meglio Botticelli, ma il Mart di Sgarbi è culturalmente vuoto.
Partiamo da “Picasso, de Chirico, Dalì. Dialogo con Raffaello”
L’inizio è folgorante. L’autoritratto di Raffaello ti parla della forza della bellezza, dello splendore della tecnica pittorica, della complessità della vita. Questo giovane bellissimo, geniale, riflette su se stesso, il suo sguardo intenso comunica consapevolezza di sé, eppure anche indefinite perplessità. Tutto questo a soli 23 anni. Guardi il ritratto e anche se lo hai già visto altrove pensi “è valsa la pena venire qui, anche solo per questo”. Il punto è che sarà proprio così: il resto non c’è proprio, o è sommamente deludente.
E si inizia subito. Nella stessa sala, nell’atmosfera creata dalla discreta illuminazione diffusa, l’autoritratto raffaellesco è affiancato da quelli di de Chirico e Dalì: ma che in comune hanno la posa di tre quarti, per il resto vanno giustamente per la loro strada, mentre dell’autoritratto di Picasso ben in vista nel catalogo non ci sono notizie. Si ha subito la sensazione che l’asserito “dialogo” tra i tre campioni novecenteschi e il maestro rinascimentale sia un discorso pretestuoso, e in ogni caso non sorretto dalle opere esposte in mostra.
Il primo grande buco è proprio Raffaello: praticamente si inizia e finisce con l’autoritratto. A dire il vero c’è anche un’opera minore, realizzata a 19 anni (la “Santa Caterina d’Alessandria” della Galleria delle Marche) e uno schizzo di una figurina di cavaliere. Poi basta, solo riproduzioni fotografiche o copie, queste ultime anche scadenti.
Un Picasso da “Vernacoliere”
Il secondo buco, emblematico e rivelatore dell’artificiosità di questo “dialogo” tra artisti, è proprio quello relativo a Picasso, scelto nel titolo come capofila di questa ipotizzata relazione: nessuna delle sue opere qui esposte rivela non diciamo un debito esplicito ma almeno la ricerca di una vicinanza di pensiero e sentimento con Raffaello. E pare arduo il tentativo, ancorché molto impegnato, di Victoria Noel-Johnson (curatrice della mostra insieme a Beatrice Avanzi) di rintracciare nel dipinto “Incendio di Borgo” (1514, Stanze Vaticane) il precedente di “Guernica” (1937) attraverso il passaggio intermedio del grande “Parade” dipinto da Picasso nel 1917. Alcune eventuali suggestioni iconografiche paiono davvero poco per avvalorare la tesi. D’altra parte, sono proprio le due studiose a ricordare che Picasso negò sempre di aver visitato nel 1917 le Stanze Vaticane, come a dire che si è sempre ben guardato dal riconoscere qualche parentela con l’Urbinate, e semmai ha tentato di prenderne le distanze. Come, per altro verso, dimostra la serie delle acqueforti erotiche, o meglio pornografiche, qui esposte, del 1968 (lui ultraottantenne) dedicate al rapporto tra Raffello e la Fornarina, soggetto anticipato in forma meno irriverente da Ingres nel primo Ottocento. Uno sberleffo rivolto anche al papa-guardone. Ora, tutto questo è forse adatto a incrementare l’audience della mostra, potrebbe anche rientrare in un discorso sulle affinità tra grandi artisti e giornali irriverenti come “Charlie Hebdo” o il nostrano “Vernacoliere”, ma francamente, la pretesa di ricavarne un qualche “dialogo” con Raffaello è disarmante.
Il caso di Dalì sembra opposto quanto all’atteggiamento verso il maestro rinascimentale. Dalì dichiara ripetutamente la sua venerazione per il Sanzio, ama circondarsi in casa di riproduzioni delle sue opere, vuole primeggiare nel proprio secolo come lui nel suo. Quando passiamo alle opere, incontriamo sì alcune citazioni in schizzi e litografie, l’importazione di una figura in un contesto surrealista (“Allucinazione raffaellesca”, 1979), o ancora il ritratto della moglie rinominata Galarina in omaggio alla Fornarina: si tratta dell’adozione di prototipi, del riuso di immagini già entrate da secoli nell’immaginario collettivo (c’è qualcosa di pop, in questo), ma mancano in mostra proprio quelle opere, citate nel catalogo, che avrebbero reso più specifico l’uso daliniano di queste icone, sorta di esplosioni delle teste di madonna (quale “La velocità massima della Madonna” di Raffaello, 1954).
Accostamenti pretestuosi
Nel caso di de Chirico, infine, notiamo che manca in mostra proprio l’opera (o un suo disegno preparatorio) che meglio potrebbe spiegare la “rivelazione” che lo stesso de Chirico afferma di aver avuto quando vide per la prima volta, a Brera, lo “Sposalizio della Vergine” (1504). Pervaso del sentimento “metafisico” derivatogli (anche) dalla lettura di Nietzsche, egli vede nell’opera raffaellita una dimensione del mistero, specie nelle parti dell’architettura e del cielo, che avranno subito (1911) una ricaduta in quello che è considerato il primo dipinto metafisico, dove compare, debitamente trasfigurato e ricontestualizzato, il circolare tempietto bramantesco. Qui dobbiamo accontentarci di un’opera in cui cita se stesso (“Piazza d’Italia”, 1949). Altre opere dechirichiane qui presenti non sembrano condividere elementi iconografici di origine raffaellesca.
Il protagonista della “metafisica” amava invece, soprattutto alla fine del periodo d’oro di quell’esperienza, tornare a copiare i grandi del Rinascimento, e tra essi Raffaello (qui vediamo due di queste copie, datate 1920), con l’intento dichiarato di un ritorno al mestiere, alla padronanza della tecnica, soprattutto per dimostrare ai detrattori dei pittori anti accademici di saper dipingere come i grandi. Ma è qualcosa di diverso dalle motivazioni poetiche.
Infine, gli accostamenti improbabili. Ad esempio, ancora dallo “Sposalizio della Vergine” (riportato in riproduzione fotografica a grandezza naturale) la mostra focalizza le figure centrali, Maria e Giuseppe, e le paragona ad altre coppie, “Ettore e Andromaca” di De Chirico e “I primi comunicandi” di Picasso. E qui siamo nell’arbitrarietà più smaccata: tra le tre coppie - i predestinati sposini biblici, i dolenti coniugi troiani, i due ragazzini vestiti a festa - non c’è proprio niente in comune, nella postura, nell’ambientazione, nel reciproco rapporto; accostamenti del genere se ne potrebbero fare decine, centinaia di migliaia, dalle anfore greche ai fotogrammi dei film. Ma di cosa stiamo parlando?
“Botticelli il suo tempo e il nostro tempo”
Qui il discorso è parzialmente diverso: è una mostra in cui (molte del)le opere di cui si parla ci sono. È divisa in due parti: nella prima una serie di lavori di Sandro Botticelli, del suo maestro Filippo Lippi e del figlio Filippino Lippi, mostra già realizzata e circuitata nel 2016-17 in Giappone e in Usa dal titolo “Botticelli e il suo tempo” da parte dell’associazione Metamorfosi diretta da Pietro Folena e ora intercettata da Sgarbi grazie alle sue relazioni con il direttore degli Uffizi Eike Schmidt (“rapacemente intercettata”, sottolinea compiaciuto l’inguaribile Vittorio) e fatta girare al Mart.
La seconda parte la potremmo definire pop. Si aggancia alle maggiori icone di Botticelli, che peraltro sono assenti: manca sia la mitica “Nascita di Venere” oggi agli Uffizi, sostituita dalla replica (della sola Venere, non dell’insieme del quadro) conservata alla Galleria Sabauda di Torino, sia la “Primavera” rimasta anch’essa agli Uffizi. Pazienza.
Il tema è come gli artisti dell’oggi, da Andy Warhol, gli anni ‘60 in poi, si sono rapportati con Botticelli. E qui Sgarbi, ancora una volta, stupisce. Uno dei punti più significativi della sua visione dell’arte contemporanea, è la differenza tra arte “applicata”, in cui si prende un oggetto di consumo e lo si replica, e arte “implicata”, quella che attraverso la reinvenzione dell’immagine vuole parlare all’uomo. Orbene, nella mostra l’utilizzo parassitario delle icone botticelliane, diventate esse stesse oggetto di consumo al pari dell’orinatoio o delle lattine di Coca Cola - cioè l’arte “applicata” - è prevalente: così abbiamo la copia della Venere in tessuto imbottito, oppure le sue versioni transgender e tanti altri esempi. Anche se altre espressioni sono più creative, ad esempio le foto di Oliviero Toscani, i lavori di Pistoletto e di Vera Portatadino, e ancor più nei tessuti ed abiti della Maison Valentino, che riescono a ricreare una non pedissequa “iperfemminilità” (citiamo dal catalogo) botticelliana.
Conclusione? Molto meglio Botticelli di Raffaello. Però anche qui, si tratta di operazioni non certo originali, iniziate peraltro allo stesso Mart con la direzione di Cristina Collu, e nello specifico una analoga mostra, “Botticelli reimagined” c’era stata a Londra nel 2016, e trasferita poi a Berlino.
Si fa presto a dire “dialogo”
Più in generale: dove va il Mart sgarbiano, questo delle pretese “grandi mostre”?
Innanzitutto riconosciamo di aver sottovalutato il critico\show man. “Durerà più Sgarbi al Mart o un gatto in tangenziale?” si era chiesto la caustica pagina Facebook “Rovereto violenta”. Ebbene, Sgarbi sta durando. Ha il consenso entusiasta dei suoi sponsor politici (impagabile la serie di siparietti alla presentazione delle mostre, con untuosi salamelecchi reciproci) e l’appoggio di parte consistente della città, che confida riesca, con il suo attivismo, a convogliare turisti e creare notorietà.
Quanto questo sia duraturo, si vedrà.
Per intanto vediamo che riesce, grazie ai suoi rapporti (modalità che non ci entusiasma, ma che ha una certa efficacia) a far arrivare al Mart opere di grande rilievo.
Quello che non ci convince è il profilo del suo lavoro. Concentriamo il nostro giudizio in uno slogan: si fa presto a dire “dialogo”. Le opere che Sgarbi raccatta, sono del tutto insufficienti per illustrare le sue tesi: una mostra non è un libro scritto, in cui i quadri vengono rappresentati da fotografie, servono i quadri veri, le opere da vedere. E di Raffaello, sostanzialmente, di opera ce n’è una sola (e allora tanto vale andare a Firenze, e non a Rovereto); ma anche degli altri autori, la carenza di opere e l’arbitrarietà con cui sono accostate fa ben presto sorgere il dubbio che non sia il discorso che guida la scelta delle opere che lo devono illustrare, ma la disponibilità delle opere a creare un discorso che in qualche maniera le tenga assieme. E allora cascano le braccia.
Ma anche nel caso della mostra di Botticelli, dove la materia prima non manca, il legame, il “dialogo” si vede poco. Per di più utilizzando proprio le stesse categorie sgarbiane, più valido come critico che come allestitore di mostre.
Insomma, questi eventi sembrano fatti all’unico scopo di poter sparare i grandi nomi, nell’attesa che seguano i grandi numeri (di visitatori).
Non sappiamo se il giochino stia riuscendo. Né quanto durerà.
Per intanto ci sembra di poter dire che la grande scommessa di fare del Mart un produttore di cultura di livello nazionale, cui tra le altre cose i grandi musei volentieri effettuano prestiti anche di capolavori, in quanto inseriti in progetti di ricerca di grande respiro, quella scommessa è già persa. Se più modestamente possa riuscire ad essere un museo sovra-regionale, si vedrà. Comunque la strada non potrà essere quella seguita da Sgarbi..