Quando non ci sono più speranze
Cure palliative: un difficile lavoro all’interno della pandemia. Da “Una Città”, mensile di Forlì
La pandemia ha avuto un forte impatto sulle cure palliative, un lavoro rimasto però invisibile, perché svolto nelle retrovie, mentre comprensibilmente l’attenzione era concentrata sul problema di reperire posti letto aggiuntivi, creare nuovi reparti, potenziare le terapie intensive.
Nonostante l’attivazione delle cure palliative sia rimasta sottotraccia, nelle aree più colpite l’impegno è stato notevole. Nella fase emergenziale le équipe di cure palliative sono state impegnate soprattutto a fornire consulenze ai sanitari, in particolare a quelli chiamati a operare nei reparti Covid, dove il personale medico e infermieristico non era abituato a gestire ammalati così gravi e che morivano in quel modo e con quella frequenza.
Un ruolo importante è stato svolto anche nella gestione diretta dei malati, sia negli hospice dedicati al Covid che nei reparti Covid dedicati al fine vita; lì i palliativisti hanno gestito direttamente o hanno sovrainteso la gestione dei pazienti che non erano candidati alla intensiva e che quindi venivano avviati verso un accompagnamento di controllo della sofferenza.
Siamo intervenuti anche nella gestione delle comunicazioni: tenere i rapporti con le famiglie compensando le inevitabili limitazioni legate al contenimento pandemico è un’impresa impegnativa.
L’altro filone su cui abbiamo lavorato è stato quello del consenso informato e della pianificazione delle cure. Pur nell’eccezionalità di quei numeri e di quei tempi, abbiamo cercato di far presente al malato le sue condizioni, offrendogli la possibilità di scegliere quali trattamenti accettare o rifiutare, o comunque, nel caso di pazienti in coma, in insufficienza respiratoria o che non potevano più rispondere, di tener conto delle volontà espresse nei giorni precedenti.
Abbiamo anche chiesto di essere coinvolti nel Piano pandemico nazionale. C’è infatti una quota di malati che non sono candidati, per età e condizioni generali, ai trattamenti o che ai trattamenti non rispondono.
Una gestione equilibrata di una pandemia deve farsi carico non solo del trattamento dei malati acuti, con il potenziamento di tutte le risorse, ma anche dell’accompagnamento dei malati che non rispondono. Tanto più che quelle da Covid sono morti “brutte”, perlopiù per insufficienza respiratoria, in fase di delirio, confusione e agitazione. Questi fenomeni vanno gestiti farmacologicamente e bisogna saperlo fare. Per un medico che opera in oncologia o in terapia intensiva può essere una pratica routinaria, ma in tutti gli altri ambiti della medicina la sedazione palliativa, il controllo dei sintomi, l’uso della morfina per monitorare il respiro sono pratiche poco conosciute. Quindi è importante che ci sia qualcuno che diffonda questa cultura.
Uno stravolgimento per la medicina occidentale
Inizialmente abbiamo subito anche noi l’urto: erano anni che lavoravamo sulle morti progressive, lente, accompagnate preparando malato e famiglia, ma improvvisamente ci è arrivata addosso una morte acuta, che sopravviene nel giro di poche ore o pochi giorni, senza alcuna preparazione, in pazienti che stavano relativamente bene prima di infettarsi. E questo ha stravolto tutti, nel senso che né la nostra società né la nostra medicina se lo aspettava; li consideravamo fenomeni da paesi del Terzo mondo, a cui si dedicavano solo alcuni infettivologi che lavorano all’estero, in Ong. Una branca delle cure palliative è da tempo presente anche nelle crisi umanitarie (pandemie, esodi di massa, guerre, terremoti), ma è qualcosa di nicchia. Per l’intera medicina occidentale, è stato uno stravolgimento dei tempi e dei modi.
Ciò che ci ha ulteriormente messo in difficoltà è che abbiamo dovuto ridurre gli accessi domiciliari e in hospice, limitare i contatti con i familiari, usare di più il telefono, Skype, le mail, insomma le comunicazioni a distanza. Ovviamente avremmo preferito poter entrare nelle case dei malati, bere un caffè, chiacchierare e assieme avviarci verso delle decisioni difficili, nondimeno, se questo non è possibile, una telefonata o una videochiamata ben fatta, un controllo a distanza con dei consigli terapeutici sono comunque utili. Forse stiamo pure apprendendo una lezione preziosa: scopriamo dei margini di attività relativamente a basso costo e con impatti efficaci. In futuro, per certe fasce di malati e percorsi di cura, questi strumenti potrebbero permetterci di ridurre la quota di assistenza direttamente impegnata con i trasferimenti e di allargare così il numero di pazienti seguiti.
Durante l’epidemia i familiari sono stati sottoposti a un di più di sofferenza per via dell’isolamento, della distanza, di lutti elaborati in solitudine. “E voi come state?” è una domanda che abbiamo sempre fatto: indagare lo stato di salute della famiglia è fondamentale. Parliamo di famiglie in cui c’erano magari più persone positive o addirittura membri ricoverati in posti anche lontani. Famiglie disgregate non solo rispetto ai contatti normali, ma addirittura nelle cure. Quindi bisognava andare con i piedi di piombo prima di dare certe comunicazioni.
E poi c’è la sofferenza di chi cura. I sanitari stanno pagando prezzi importanti di cui ancora non conosciamo l’entità. Salvo che in alcuni settori, come le terapie intensive, il resto della medicina non è mai stata abituata a tassi di mortalità così elevati. Vedere tanti pazienti morire a fronte di una relativa impotenza, e morire “male”, perché nel caso del Covid il processo generalmente non è né sereno né rapido; ecco, tutto questo ha fatto male ai sanitari.
Questa pandemia ha messo sotto sforzo anche i medici e gli infermieri più abituati, i terapisti intensivi, i medici d’urgenza, perché quei numeri e quei modi sono decisamente inconsueti. Vederti morire un malato in ambulanza perché finisci l’ossigeno dopo sei ore che sei in fila per entrare in un ospedale è qualcosa che non ci saremmo mai immaginati potesse accadere. Qui nessun medico, infermiere, autista o soccorritore era abituato a situazioni così estreme, le si immaginava in un contesto africano, non in terra lombarda. La stanchezza, la fatica di essere sempre lucidi, e intanto le emozioni, i lutti... Bisognerà lavorarci sopra...
Le pretese e le possibilità reali
Normalmente in ambito medico si fa un triage mirato alle condizioni del malato e alle sue volontà. È chiaro che se l’ammalato rifiuta un trattamento di supporto vitale nessuno glielo impone: se la decisione è quella, va rispettata. Ugualmente, se le condizioni sono tali per cui non si prospetta un beneficio, il paziente non viene candidato al trattamento. Questo è quanto avviene in un contesto normale. Quello che cambia completamente in condizioni di triage pandemico è che le domande, i bisogni superano le capacità fisiche e le risorse disponibili, che non sono solo gli ospedali e i letti: è la capacità di mandare avanti i processi di cura. Per gestire un letto di terapia intensiva non basta avere il materiale, le apparecchiature, servono anche le capacità, le competenze per seguire questi malati, che non si improvvisano. Allora, fermo restando che l’obiettivo è cercare di aumentare le risorse, in una maxi emergenza ci sarà sempre una sproporzione fra ciò che si dovrebbe fare e ciò che realmente si può fare, un momento critico in cui le risorse non basteranno.
Il tema del triage in condizioni straordinarie è un capitolo della medicina che fino ad oggi aveva interessato solo la chirurgia di guerra e le maxi emergenze (terremoti, crolli, disastri ferroviari), noto ai rianimatori di medicina d’urgenza, ma sostanzialmente ignorato dal resto della medicina. La pandemia ce lo ha messo brutalmente sotto gli occhi.
In questi mesi i sanitari si sono trovati davanti a scelte drammatiche, che hanno provocato in molti una sofferenza morale che si è aggiunta alla già enorme fatica richiesta per fronteggiare una situazione eccezionale. Queste persone non devono essere lasciate sole in una decisione etica tanto ardua. Assieme dobbiamo individuare criteri condivisi e renderli pubblici. Perché comunque delle scelte vengono già fatte e qui non parliamo di gestire le ore successive a un disastro ferroviario che coinvolge un paio di équipe e qualche decina di persone. Questo tema riguarda centinaia di sanitari e infine l’intera popolazione.
L’obiettivo della medicina e della società dovrebbe essere quello di permettere, a parità di bisogno, di ricevere parità di cure, che non vuol dire tutte le cure ma quelle offerte dal bilanciamento tra bisogni e possibilità. Nessuno rimarrà senza cure, ma si graduerà il tipo di cura sulla probabilità di ottenere risposte positive, cercando di salvaguardare il massimo numero di persone. Sapendo che non puoi salvaguardare tutti. È questo il punto.
Andrebbe stabilito un patto tra cittadino e medico. In questi ultimi anni, da un lato il ricorso agli avvocati ogni volta che l’esito era infausto e dall’altro una medicina “difensiva” non hanno aiutato. Serve una medicina fondata sulla deontologia, consapevole dei propri limiti e capace di gestirli in modo trasparente.
La società, da parte sua, deve uscire dal sogno del “non si può morire, e se qualcuno muore allora è colpa di qualcuno” e prendere atto che esistono dei limiti della medicina, dell’organizzazione sanitaria, della società, dell’economia e quindi occorre trovare un punto di incontro. Questo è un passaggio che la pandemia ci costringerà a fare.
A partire dalla Seconda guerra mondiale abbiamo costruito una medicina complessa che ha permesso di aumentare l’età media. Questo aumento dell’aspettativa di vita è però gravato da un’elevata incidenza di patologie. Ma la società non ha ancora accettato fino in fondo che si muore sì più tardi, ma si muore più malati e a un certo punto non ci sono più possibilità di cura, perché la biologia non risponde più.
Dirò forse una cosa un po’ dura: mi ha stupito che soprattutto nei primi mesi i morti nelle Rsa suscitassero tanto scandalo. Parliamo di un fenomeno mondiale. D’altra parte qualunque sanitario sa che le pandemie incidono sui più fragili. Invece è partita una polemica infinita, dove sembrava che la colpa fosse che non li avevamo protetti a sufficienza. Senza poi spiegare come avremmo potuto farlo, visto che il personale medico-infermieristico ha una sua vita, non puoi isolare e blindare tutti. Oltre tutto, dove invece hanno provato a blindare, allora ci si lamentava della mancanza di contatti e comunicazione.
Questa pretesa di avere tutto subito e bene è comprensibile, ma non è razionale. Qualunque scelta si compia comporta delle conseguenze e l’unico modo per ridurre queste contropartite è accettare che esistono dei limiti.
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Luciano Orsi, medico anestesista rianimatore, è vicepresidente della società italiana cure palliative e direttore scientifico de “La Rivista Italiana di cure palliative”.