Corsa al riarmo e venti di guerra
Trump contro tutti: dalla minaccia di ritirarsi dall’accordo con la Russia sui missili alle sanzioni contro l’Iran, ai timori per la crescita cinese
In questi mesi lo scenario della politica internazionale si è andato sempre più incupendo. Alcuni eventi in particolare segnalano che il barometro della pace volge al brutto. La decisione degli USA di ritirarsi dall’accordo con la Russia sulla riduzione dei missili a corto e medio raggio, l’imminente inasprimento delle sanzioni all’Iran che partirà nella prima settimana di novembre, la corsa al riarmo nel Pacifico con la Cina protagonista. Il tutto mentre i problemi di sempre, dalla irrisolta questione palestinese alle guerre civili di Siria e di Libia, restano sul tappeto.
Cominciamo dal primo punto. L’accordo Stati Uniti-Russia sulla riduzione dei missili a corto e medio raggio che risale agli anni Ottanta, aveva messo fine a una gara sugli armamenti offensivi a medio raggio e determinato lo smantellamento di basi missilistiche americane in Europa e il contemporaneo smantellamento di missili russo-sovietici puntati sui paesi europei che ospitavano basi americane. Questa decisione era stata salutata con sollievo dalla ormai boccheggiante Unione Sovietica, stremata finanziariamente da decenni di corsa agli armamenti e che per altro di lì a poco doveva crollare insieme al famigerato muro di Berlino. Oggi la decisione americana pone una domanda. Ricomincia tra i due paesi un riarmo accelerato ovvero una nuova corsa agli armamenti? La Russia di Putin, già messa a dura prova dalle sanzioni americane, può permettersi una ulteriore emorragia di risorse per stare al passo con il riarmo americano?
La situazione in realtà è oggi molto diversa. Sotto il profilo tecnico pare, secondo gli analisti militari, che la Russia abbia accumulato un vantaggio consistente proprio sui missili a medio raggio, e non tanto su quelli destinati a portare testate atomiche per distruzioni su larga scala, quanto sui missili di precisione da interdizione aerea e/o navale. Facciamo un passo indietro: il potere militare americano su scala planetaria, dal secondo dopoguerra sino a ieri, si è basato sulla disponibilità di gruppi di portaerei capaci in pochi giorni di portare uno stuolo di bombardieri USA in ogni parte del mondo ove gli interessi americani lo richiedessero. Nella prima e nella seconda guerra del Golfo da queste portaerei sono partiti attacchi devastanti alle città e alle basi di Saddam Hossein, e fino a ieri la sola minaccia di mandare una portaerei poteva cambiare radicalmente la valutazione geopolitica di un conflitto in atto o potenziale. I teorici e analisti militari per questo parlano di confronto globale tra potenze del mare (ieri la gran Bretagna, oggi gli USA) e potenze terresti (Russia e Cina). Queste ultime nei decenni trascorsi non hanno inseguito gli Stati Uniti sul loro terreno cercando di contrastarne lo strapotere navale, ossia costruendo a loro volta una flotta di portaerei, bensì hanno sviluppato con costanza e risorse l’arma missilistica. Oggi le navi americane, come hanno scoperto gli alti comandi USA, non sono più invulnerabili: un missile di precisione lanciato dalla costa può farne un falò anche se navigano a mille chilometri di distanza. Persino medie potenze regionali come l’Iran, che si è dotato di queste tecnologie sviluppando modelli di importazione cinese, sarebbe in grado di ribattere a un attacco proveniente da una portaerei americana con buone probabilità di causare perdite o gravi danni. E non è un caso che questo paese ha rinunciato da tempo a sviluppare l’aeronautica, che esige postazioni fisse (aeroporti, hangar, officine, magazzini, ecc.) facilmente attaccabili, a favore dell’arma missilistica, che consente una estrema mobilità dei lanciatori e una sostanziale invisibilità al nemico.
Il nemico iraniano
E veniamo dunque all’Iran, oggi più che mai al centro della disputa tra gli USA di Trump e la Russia di Putin. L’accanimento con cui Trump si è impegnato prima a smantellare l’accordo sul nucleare sottoscritto da Obama e gli ayatollah nel quadro dell’accordo 5+ 1, e poi nell’imporre una serie crescente di gravi sanzioni, ha qualcosa di strano e all’apparenza incomprensibile. Né in Irak né in Afghanistan, due paesi in cui sono presenti truppe americane da una ventina d’anni e che sono al contempo fortemente legati (soprattutto il primo) all’Iran, vi sono mai stati scontri e neppure attriti tra americani e movimenti filo-iraniani. Anzi, si può dire che vi sia stata una tacita collaborazione sul campo per schiacciare i comuni nemici (al-Qaeda, l’ISIS, i Talebani). Le truppe iraniane in Iraq sono state decisive nella sconfitta dello Stato islamico dell’Isis, così come hanno tenuto lontano i Talebani dalla parte occidentale dell’Afghanistan (zona di Herat). Ma Trump, si noti bene con l’applauso incondizionato di Israele e l’entusiasmo dell’Arabia Saudita, ha lanciato una vera campagna di annientamento economico-finanziario dell’Iran, il quale si difende come può, ossia stringendo ulteriormente i legami commerciali con vicini ingombranti come la Russia e la Cina, cercando di vendere il petrolio all’India e a una Europa che a parole non intende uscirà dal patto 5+1, ma di fatto stenta a mantenere una politica autonoma da Trump e compagni.
Quali le ragioni di questa politica furiosamente anti-iraniana di Trump? Qualcuno ha fatto notare che fra USA e Arabia Saudita corrono affari per un importo annuale di 450 miliardi di dollari (per farsi una idea, tra Iran e UE il giro d’affari è crollato ormai a poche decine di miliardi di euro) e qualche analista ha malignamente osservato che i sauditi tempo addietro hanno salvato dal fallimento società appartenenti all’impero economico della famiglia Trump. Ora tutti sanno che i sauditi temono l’espansionismo iraniano nel Medio Oriente e soprattutto la crescita di una potenza economica e demografica (80 milioni di abitanti) regionale, e Trump, a differenza di Obama, non sembra insensibile a questi argomenti.
Trump dunque ostaggio della potenza finanziaria saudita? In America non solo lo pensano, ma lo scrivono diversi osservatori e da un po’ di tempo; né tra il partito avverso, i democratici, si nasconde il piano di farlo decadere per via giudiziaria, magari dopo le elezioni di mid-term, appigliandosi a un emendamento che lo consentirebbe in caso di acclarata “incapacità” del presidente.
In questo scenario chi può escludere che, in seguito a un passo falso di qualche attore, la situazione nel teatro mediorientale precipiti? In Siria sono presenti truppe iraniane a fianco dei russi, più volte prese di mira dai bombardieri israeliani, ma vi sono anche militari e basi aeree americane nel nord-est che appoggiano le formazioni curde. Un incidente, una provocazione, sono nell’ordine delle possibilità e qualche attore, Israele in testa, potrebbe approfittarne per “dare una lezione “ all’Iran con conseguenze a catena non difficili da immaginare. Basti ricordare che gli Hezbollah del Libano, stretto alleato dell’Iran, hanno un arsenale che secondo alcune prudenti valutazioni assomma a oltre 100.000 razzi e missili, la cui testata potrebbe essere caricata anche con armi non convenzionali (chimiche, batteriologiche). Oppure si pensi alla minaccia di chiudere lo stretto di Hormuz, una delle vie del petrolio, mossa che l’Iran ha più volte prospettato nel caso a qualcuno venisse in mente di attaccarlo direttamente sul suolo nazionale.
Scontro fra potenze
Gli incidenti e le provocazioni sono una possibilità, sia pure al momento più remota, anche nel Pacifico, in particolare nel Mar Cinese orientale, dove è in corso da tempo una guerra di nervi. La Cina rivendica sempre più il dominio sul mare di casa, contrastata però da Giappone, Corea del Sud e Taiwan che vi si affacciano e hanno considerevolmente incrementato il ritmo del loro riarmo. La flotta americana, di casa nella zona, ha recentemente scoperto con vero sconcerto che i cinesi possono tranquillamente annientare coi loro missili di precisione di nuova generazione non solo le navi di superficie e i sottomarini, ma persino le loro basi più lontane, come per esempio l’isola di Guam. La rivalità tra Cina e USA sul piano commerciale, industriale, spaziale, dell’ IT (Information Technology) com’è noto ormai è estesa a livello planetario. Gli Stati Uniti vedono con crescente disdetta l’aumentare inesorabile della influenza cinese in Africa e persino in Sudamerica, dove i cinesi comprano a man bassa le élites e le risorse locali grazie ai generosi finanziamenti di cui dispongono; il progetto della nuova Via della Seta, con supermoderni collegamenti veloci ferroviari e stradali tra Pechino e il Mediterraneo (i cinesi, durante la crisi greca, si sono comprati letteralmente il porto del Pireo), ha reso evidente la portata della sfida: l’Asia alla Cina non basta più.
I pesanti dazi commerciali imposti da Trump a Pechino sono solo l’inizio di una guerra commerciale durissima, destinata ad acuirsi. Qualcuno dice che il vero scontro del XXI secolo sarà tra la Potenza nascente, la Cina, e la Potenza declinante, gli USA, che tuttavia mantengono tuttora un certo vantaggio tecnologico e non guardano di sicuro con piacere allo sviluppo di una Potenza destinata a soppiantarli. Ma - ecco il punto - la finestra temporale del relativo vantaggio tecnologico e militare degli USA è ristretta, forse dieci anni o anche meno. È un vantaggio insomma destinato a ridursi rapidamente e, come dice la teoria militare, in questo lasso di tempo la potenza declinante può essere tentata di risolvere la partita con i muscoli. In conclusione, non è decisamente un bel panorama…