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Al Manifesto, con Rossana Rossanda

L’atmosfera era quella di una vera e propria trincea politico-giornalistica. Nella quale, nonostante tutto, mi trovai alla fine a mio agio da corrispondente di guerre di liberazione

Gianni Beretta
Lucio Magri, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luciana Castellina.

Ho cominciato a scrivere per il Manifesto verso la fine del 1982. Avevo 28 anni. Il mio primo pezzo fu sulla multinazionale bananiera Standard Fruit Company che abbandonava le sue piantagioni in Nicaragua, agli inizi della guerra di aggressione alla Revolución Popular Sandinista scatenata da Ronald Reagan. Da allora, più o meno ogni anno, venivo in Italia e facevo capolino a Roma qualche giorno alla redazione esteri. E la cosa cui più ambivo in quel lungo corridoio dove si affacciavano le stanze al quinto piano di via Tomacelli, era di incrociare Valentino Parlato, Luigi Pintor e, soprattutto, Rossana Rossanda.

Ero uno degli sparuti operai (forse l’unico) che si era avventurato a scrivere per quel quotidiano nazionale fatto da intellettuali di cotanta levatura; assai scarsamente attrezzato com’ero dal punto di vista politico. Il fatto è che semplicemente avevo deciso di attraversare l’Atlantico per la curiosità di vedere com’era una rivoluzione in carne e ossa. E quando Piero, della segreteria de il manifesto, venne a saperlo, mi chiamò un paio di giorni prima a valigie fatte e mi disse: “Scrivi per noi!” E io, piuttosto perplesso: “Ci posso provare…”.

Ero partito per Managua per starci sei mesi. Non sono tornato più. Giornalista assolutamente per caso. Certo, trovandomi nel posto giusto nel momento giusto.

All’incrociare Rossanda in quel corridoio accennavo un timoroso sorriso e un saluto. Ma lei praticamente non mi si filava e tirava dritto. Del resto neanche sapeva chi fossi. E io non avrei mai osato chiedere a qualcuno di presentarmela. Capii subito che quel posto non era fatto di convenevoli. L’atmosfera era quella di una vera e propria trincea politico-giornalistica. Nella quale, nonostante tutto, mi trovai alla fine a mio agio da corrispondente di guerre di liberazione: El Salvador, Guatemala, Nicaragua.

Sapevo pure che Rossanda era parecchio pratica di rivoluzioni. In particolare della vicina Cuba di Fidel Castro, che aveva conosciuto personalmente. E da dove (insieme al suo compagno K. S. Karol) già nel 1970 aveva ripiegato.

Ricordo poi che nel luglio dell’81 Pino Cimò pubblicò sul giornale un lungo e assai critico reportage sulla rivoluzione sandinista. E l’allora giovanissimo incaricato d’affari nicaraguense a Roma, Orestes Papi, indirizzò proprio a Rossanda una rispettosa lettera, sorpreso che il giornale si fosse così schierato. Con Rossana che rispose - materna quanto fermamente argomentata - sui pericoli che la rivoluzione avrebbe dovuto affrontare. Finì che nelle due settimane successive uscirono due speciali di quattro pagine d’interventi sul Nicaragua, per la gran parte schierati col processo rivoluzionario. Da allora non mi consta che Rossana abbia mai più scritto sulla rivoluzione sandinista.

In compenso Valentino Parlato nel marzo dell’82 fece un editoriale a commento di Eden Pastora (l’allora mitico Comandante Zero) che, a mo’ di novello Che Guevara, annunciava di aver lasciato il Nicaragua in dissenso col governo rivoluzionario per lottare al fianco di altri popoli ribelli. Come a dire: “Ci risiamo…” Insomma, da parte mia fu incosciente assumere la responsabilità di riferire sul Manifesto da giornalista esordiente (pur appassionatissimo) su quella che sarebbe stata l’ultima rivoluzione del Novecento. Sulla quale peraltro si erano puntati gli occhi e le aspettative di tutto il mondo. È che non me nerendevo conto.

Di certo ho potuto constatare sulla pelle la straordinaria scuola di giornalismo politico che è stata. Durissima, senza sconti, a calci in bocca. E se è vero che all’Itis di Sesto San Giovanni prendevo otto in italiano, poi al massimo avrò redatto qualche comunicato sindacale.

Leggevo molto; ma libri interi, pochi. Per di più scrivevo solo a mano, e poi trasmettevo per telefono. Mi vengono i brividi a ripensarci! Con lo storico e severissimo capo esteri, mio (suo malgrado) maestrissimo Maurizio, che anni dopo scoprii essere stato, nelle riunioni di redazione, mio difensore da certo scetticismo dei “vecchi”. D’altro canto a quell’epoca l’istmo centro-americano era sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, e ti toccava scrivere due/tre pezzi ogni settimana. Il tutto all’insegna di un “quotidiano comunista” il cui cuore batteva per quei processi rivoluzionari, ma su di essi non si sdraiava; senza omissioni, né tantomeno bugie, mantenendo un approccio critico. Che è poi quanto Rossana ha insegnato e preteso sempre da tutti noi.

Gli incontri

Dovetti aspettare la seconda metà degli anni ‘90 per conoscerla davvero. Mi ero nel frattempo innamorato di Sandra in Nicaragua e, pur continuando a vivere laggiù, venivo con una certa frequenza da lei ad Arezzo. Fu lì che proposi alla biblioteca una presentazione di “Appuntamenti di fine secolo”, che Rossana aveva appena scritto con Pietro Ingrao. Andai a prenderla a Roma con timore reverenziale. Ingrao non venne perché gli era preso il colpo della strega. C’era anche Karol; e lei esordì nello scompartimento del treno dicendomi: “Leggo da sempre quello che scrivi dal Centroamerica…”. Rimasi senza parole. E cominciò con dolcezza a farmi un sacco di domande puntuali, precise: sulla sconfitta elettorale sandinista, sull’agire della guerriglia salvadoregna dopo la fine della guerra civile, sugli zapatisti... E io ad argomentarle che la rivoluzione nicaraguense era stata davvero popolare, plurale, aperta; senza un lider màximo ma una direzione collegiale timidamente ispirata al marxismo come alla Teologia della Liberazione.

La sala della Biblioteca di Arezzo era stracolma; la gente arrivava fino in fondo alle scale. “Mai successo”, commentò il suo presidente. Il giorno dopo Rossana chiese se fosse possibile inerpicarsi sul ponteggio del restauro in corso della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca nella chiesa di San Francesco. Il responsabile dei lavori interloquiva fittamente con lei. Il venerdì dopo, sulla sua rubrica settimanale Note a Margine, apparve a tutta pagina: “L’essere intellettuale ai tempi di Piero”.

Durante la sua lunga permanenza a Parigi ebbi solo modo nel 2011 di attivare una sua visita a Lugano alla Radiotelevisione Svizzera Italiana, per la quale ero stato (provvidenzialmente, visto che ai tempi dal Manifesto ricevevo solo qualche rimborso spese) collaboratore radiofonico da laggiù, per poi passare alla televisione. Anche lì furono due giorni intensi e fantastici, con le magistrali interviste che Rossana rilasciò al programma televisivo di punta Controluce e al canale culturale della Rete Due della radio.

Fino a che, nel mio andirivieni fra l’Italia, il Centro America e la Svizzera, potei vederla due anni più tardi con più frequenza quando le toccò restare alcuni mesi in una clinica del Ticino per riabilitarsi dall’ictus che l’aveva colpita.

Lì ci affondammo a piene mani sui destini rivoluzionari. In quel caso ero più io a farle tante domande. E lei a constatare le mie lacune di fondo e quanto fossi, nonostante tutto, ancora disattrezzato. Un paio di volte mi suggerì amorevolmente qualche libro, compreso uno che aveva sullo scaffale di quella stanza e che mi regalò.

Mi chiese della tragica deriva del Nicaragua. Di quello straordinario sogno plurale dei sandinisti spazzato via dal delirio messianico di Daniel Ortega e consorte. Ammisi che la luna di miele rivoluzionaria, anche a causa dell’aggressione, era venuta meno; ma che la sconfitta alle urne del febbraio 1990 era stata in realtà l’opera maestra di una rivoluzione che, misuratasi nelle peggiori condizioni, aveva finalmente “dignificado” (nobilitato) questo paese consegnando il governo e passando all’opposizione, col proposito di riorganizzarsi e rifarsi altrettanto democraticamente alle elezioni successive. Così pensavano Sergio Ramirez, Ernesto Cardenal, Gioconda Belli. Tutti letteralmente cancellati da Ortega che, dopo un diabolico patto con i nostalgici del somozismo, nel 2007 ritornò al potere con l’intenzione di non lasciarlo più.

Al che Rossana mi fece intendere che in fin dei conti a Cuba non era andata tanto diversamente. Le ribattei che a L’Avana l’oltre mezzo secolo di sovranità nazionale (di cui quasi metà orfana degli aiuti dell’Urss) era già un miracolo; e che a 90 miglia dagli Stati Uniti la sovranità era difficilmente coniugabile con l’esercizio democratico, perlomeno quello conosciuto nel nostro ricco emisfero nordoccidentale. E aggiunsi che i fratelli Castro, bene o male, continuavano a conservare i principi originari della prima ora.

Poi Rossana rientrò a Parigi e non ci siamo più rivisti. Un po’ per pigrizia mia, ma soprattutto per non voler caricare la sua fragile salute, specie dopo la dipartita di Karol e il suo ritorno a Roma. Cosa che mi rimprovero molto, visto che lei non ha mollato fino all’ultimo.

I “vecchi” se ne vanno

Nel frattempo, nel 2012, il Manifesto dei fondatori aveva chiuso i battenti, oltre che per problemi finanziari, per incomprensioni e mancanza di confronto con coloro che li avrebbero seguiti. Anche il sottoscritto, che pure dentro quelle stanze c’era stato fisicamente poco, per una sorta di solidarietà coi vecchi non scrisse più. L’ultimo mio pezzo l’avevo inviato da Managua nel novembre 2011 sulla rielezione viziata di Ortega.

Di lì in poi il giornale cambiò linea, come se il regime orteguista fosse in continuità con l’antico processo rivoluzionario, ponendo il Nicaragua sullo stesso piano dell’angosciosa vicenda venezuelana e di Cuba. Fino ad arrivare ai vergognosi eventi che si sono susseguiti dall’aprile 2018, quando il fu Comandante de la Revolución ha soffocato nel sangue la rivolta disarmata degli studenti universitari (i “nipoti” di Sandino) che trascinarono gran parte della popolazione nelle piazze con la richiesta di libere elezioni.

È in quel momento che Tommaso Di Francesco, uno dei pochi veterani rimasti al giornale, mi chiama e mi dice: “Gianni, devi tornare a scrivere”. Giust’appunto stavo partendo per San Salvador e dirottai su Managua. Erano già una cinquantina le giovani vittime. Con Ortega a inventare la tesi del golpe ordito da Washington e ad instaurare uno stato di polizia.

Luigi Pintor, che avevo sempre sentito lontano, se ne è andato nel 2003 senza che fossi mai stato capace di parlargli. Valentino Parlato (cui devo, nel 1989 l’avermi assunto per l’esame da professionista) è tornato in seguito inesorabilmente a scrivere per il giornale di cui era stato il cuore pulsante; prima di lasciarci nel 2017. Anche Rossana negli ultimi tempi aveva ripreso a pubblicare qualche sua riflessione.

A loro dobbiamo riconoscere di aver visto giusto. Non tanto sulla tale o tal’altra tesi, ma sul fatto che ogni volta ci si deve interrogare, cercare di capire, con rigore. Per poi continuare il percorso..