Luigi Pintor
Il fondatore del Manifesto: una vita segnata dalle tragedie private, da un pessimismo globale; e nonostante questo, nobilitata da un impegno civico e politico appassionato, che ha lasciato un segno nella storia.
Erano i primi mesi del ’69 quando, per la prima volta, incontrai Luigi Pintor. A Venezia, una grande, affollata assemblea di presentazione del Manifesto, allora non ancora giornale bensì nuovo gruppo politico, formato da eretici del Pci appena espulsi dal partito per aver pubblicato l’omonima rivista.
Gli interventi si susseguivano, tutti alati e ideologici come allora si conveniva; e Pintor (che con Rossana Rossanda girava l’Italia a presentare l’iniziativa) non nascondeva il suo fastidio. Quasi ultimo intervenni anch’io, allora studente universitario: un discorso molto semplice per dire che sia gli interventi precedenti, sia la stessa pur ottima rivista il Manifesto usavano un linguaggio per i più difficilmente comprensibile; eppure si parlava tanto di classe operaia e partito operaio! Non era una contraddizione di base, difficilmente sanabile? Pintor alle mie parole si ravvivò, mi citò nel suo discorso conclusivo cercandomi con gli occhi tra la folla, e mi mostrò grande simpatia quando alla fine ci fermammo a parlare.
Luigi Pintor era così: uomo di grande calore umano, di grande concretezza, di assoluta onestà. Nel gruppo degli intellettuali del Manifesto non brillava per acutezza di analisi come Lucio Magri, o per profondità come Rossana Rossanda: ma fu lui a dare vita all’unica iniziativa che lasciò un segno arrivando fino ad oggi: il quotidiano il Manifesto, impresa temeraria di giornale controcorrente, autogestito, eppur sopravvissuto a più di trent’anni di temperie.
Pintor era un grande direttore e giornalista: sapeva organizzare, motivare, dirigere facendosi amare. E’ stato anche un polemista straordinario: le sue invettive erano nutrite dalla sua integrità morale, e rese acuminate da un uso genialmente icastico, sintetico e creativo della lingua italiana.
Nella vis polemica si esprimeva al meglio. Ma anche palesava quello che ritengo il suo limite: una visione pesantemente pessimistica del mondo. Tutto va male, anzi, di male in peggio, sempre: più povertà, più incultura, più barbarie. Una visione comune a parte della sinistra, a cominciare da Marx e da una delle sue previsioni sballate (il proletariato destinato a un peggioramento continuo della propria condizione, fino al giorno della rivoluzione) e che nel corso dei decenni permane ostinatamente, anche a dispetto dell’evidenza.
In Pintor questo pessimismo, che stranamente contrastava con il suo senso pratico, e che nello stesso Manifesto era percepito come eccessivo ("Beh sai, Luigi è così...") era evidentemente originato e alimentato dalle tragedie che gli avevano crudelmente segnato la vita. Da ragazzino gli era morto il fratello maggiore e suo punto di riferimento, quel Giaime Pintor enfant prodige dell’intellettualità antifascista, morto ventitreenne su una mina tedesca mentre andava a raggiungere le unità della Resistenza; poi gli sarebbe morta la prima moglie; e poi il figlio e quindi la figlia. Eppure, nonostante tutto, nonostante una visione triste della vita e del mondo, gli restava la grande, eroica forza morale di continuare a combattere: tutto va male, il mio impegno sarà probabilmente inutile, ma non abbandono, non diserto. Una fede laica, il dovere morale di battersi, magari inutilmente, contro le crudeltà del mondo.
Pur piegato dal male che lo stava uccidendo, Luigi Pintor ha continuato a scrivere, fino a pochi giorni dalla morte, lucidissime e amare pagine sulla guerra in Iraq.