“Terra Mala. Viaggio nella Terra dei Fuochi”
Fotografare il crimine ambientale Trento, Museo Diocesano, fino al 6 maggio
Questo discorso per immagini sulla cosiddetta Terra dei Fuochi, vasta area fra le province di Caserta e Napoli dove lo smaltimento criminale dei rifiuti tossici, da parte di imprese che si sono servite della camorra, ha prodotto nei decenni il maggior disastro ambientale italiano, è qualcosa di più di un reportage fotografico.
Si percepisce subito che il talento del fotografo è lo strumento di un’osservazione paziente, durevole, che avviene dentro un progetto comune, non tanto a fianco ma insieme al mondo degli attivisti che da anni si battono per il risanamento e il risarcimento di questi luoghi e di questi abitanti. Soprattutto vicino alle molte madri che hanno avuto, spesso perduto, bambini colpiti da tumori contratti nell’ambiente inquinato sia a livello del terreno che dell’acqua e dell’aria.
Stefano Schirato (Bologna, 1974) appartiene a quel genere di fotografi che, davanti ad una situazione tragica, non si limitano a documentarla, ma cercano di dare un contributo specifico a chi opera per cambiarla: così come aveva fatto in precedenti lavori su altri grandi catastrofi ambientali, sull’Ilva di Taranto e sul disastro di Chernobyl.
Schirato non avrebbe del resto potuto produrre queste immagini se non avesse ottenuto prima qualcosa più dell’appoggio, la fiducia delle persone colpite, che hanno aperto la propria casa, gli hanno fatto conoscere i propri bambini, viventi o scomparsi, lo hanno accompagnato sui luoghi ammorbati, nelle loro ricognizioni e nei momenti delle manifestazioni di protesta. Ed ha anche, stabilito una piena sintonia con un attivista simbolo come padre Maurizio Patriciello, parroco a Caivano, e con il professor Antonio Giordano che da anni studia il rapporto tra questi inquinamenti e l’abnorme crescita delle malattie.
Luoghi, bambini, madri. Quello che viene fuori è, come fa notare la curatrice Arianna Rinaldo, il risultato di uno sguardo empatico ma, possiamo aggiungere, un discorso sulla maternità.
La maternità negata della Terra avvelenata-avvelenante: questo dicono, nel loro scabro bianco e nero, le immagini di coltivazioni e accampamenti a ridosso di discariche; di profonde trincee scavate lì dove un pentito di camorra ha indicato che erano state interrate tonnellate di rifiuti tossici; di piloni autostradali che a Napoli sovrastano i casamenti popolari.
Ma forse non è lì che le immagini restituiscono in massimo grado l’entità del danno, anche se alcune sanno colpire a fondo sul versante simbolico, sui temi dell’incuria e dell’irresponsabilità, come quel divano sfondato lasciato a bordo strada, o i mezzi manichini, senza testa, che emergono dal cumulo delle immondizie. D’altra parte, poche cose sono inadatte ad essere documentate in fotografia come materie altamente inquinanti sotterrate in profondità.
È invece l’altra maternità a colpirci come uno schiaffo, quella propriamente umana, la maternità violata delle donne che vedono i propri figli morire, o subire lunghi periodi di cure pesanti, separazioni, angoscia. E questo senza che il fotografo vada a cercare, come altri cercano, gli aspetti raccapriccianti, ma solo accennando con misura e pudore le conseguenze, lo smarrimento, volti che emergono defilati dal fondale nero, bambolotti abbandonati, mascherine sanitarie che impediscono un bacio. Una maternità che sa trovare, anche, la forza per resistere e agire insieme. Come ha fatto e sta facendo, per sé e per gli altri, quella donna, Rosa Bianco, di cui vediamo qui fotografato il quaderno cominciato nel 2013 nel quale censisce coloro che si ammalano di inquinamento, gesto che non ha solo un significato simbolico, ma prefigura l’intervento di controllo sistematico che ancora non è stato realizzato.
L’iniziativa del Museo Diocesano prevede, tra marzo ed aprile, incontri di approfondimento sui temi della criminalità ambientale, un workshop con l’autore sull’uso delle immagini per raccontare una storia, e uno spettacolo conclusivo con il rapper Lucariello, noto al pubblico per il brano che conclude le puntate di Gomorra.