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“Il corriere - The Mule”

Un film di Clint Eastwood. Tutto Clint, nel bene e nel male.

“Il corriere - The Mule”

I pregi di “Il corriere - The Mule” sono Clint Eastwood, e i limiti sono Clint Eastwood. Aveva ragione Sergio Leone quando diceva che l’attore ha solo due espressioni: col sigaro e senza. Ma quanto sono intensi quegli sguardi, quei silenzi, quei mezzi ghigni, quella bocca storta. Quanto è potente e ricco di sottintesi quel volto. E in questo film ancora di più, perché è tutto il corpo ad essere in gioco. Un corpo tanto prestante in gioventù, quanto in dignitoso ma imprescindibile invecchiamento oggi, alla veneranda età di 88 anni. Ma non si nasconde Clint, anzi fa del suo corpo e della fragilità nell’adultità un punto di forza del protagonista. Si mette in gioco tutto, ed è un bene, ma è anche per questo che il film, in definitiva, pare più cucito sull’attore che sul personaggio.

Earl Stone è un floricoltore dell’Illinois specializzato nella coltura di un fiore che vive solo un giorno. A quel fiore ha sacrificato la vita e la famiglia che, adesso che è invecchiato e in totale fallimento a causa della crisi e delle innovazioni tecnologiche, di lui non vuole più saperne. Earl è così costretto a vendere la casa, e gli resta solo un vecchio pick-up con cui in passato ha raggiunto 41 stati su 50 senza mai prendere una contravvenzione. Alla festa prematrimoniale della figlia, dove si presenta inaspettato e da cui viene presto cacciato, uno sconosciuto, che sa della sua attitudine alla guida, gli propone un lavoro redditizio: il trasporto dal Texas a Chicago di grossi carichi di droga. Earl accetta senza fare domande. L’età lo rende insospettabile e irrilevabile per la DEA. Da veterano di guerra a ‘mulo’, Earl dimentica i principi di fiero difensore del Paese.

Parabola sull’invecchiamento, accusa alla modernità (Internet, la telefonia mobile) e al dio denaro, che comunque ci coinvolge e ci prende la mano, il film propone un protagonista che non è un eroe, ma una vittima che reagisce come può ad un mondo cambiato e nel quale non si ritrova per l’età, ma anche per una rigidezza mentale e un’ottusa fedeltà a certa tradizione (di cognome fa Stone, ovvero pietra). I suoi limiti e le sue colpe non sono negati o nascosti, nemmeno giustificati, se non piuttosto mostrati e in parte compresi, ma non potendo essere accettati, ecco che la sceneggiatura propone aggiunte e risvolti che suonano pretestuosi, e non convincono del tutto.

Le vicende sono ispirate ad un articolo di giornale, come molte volte succede in tanti buoni film americani. Ma invece di limitarsi allo sviluppo del racconto e al tratteggio dei personaggi, Nick Schenk, già sceneggiatore di “Gran Torino” insistite in una caratterizzazione morale del protagonista che risulta in parte forzata e spuria. Così, alla fine della proiezione, se da una parte si rimane emozionati e anche commossi per la figura virile e degna del protagonista, che sbaglia per bisogno, cede anche per adulta vanità e ne accetta le conseguenze, dall’altro emerge un senso di scetticismo per un personaggio che ha superato i limiti dell’autenticità.

Se in “Gran Torino” il sacrificio del protagonista era il compimento di una parabola di redenzione profondamente umana, qui il finale dà la sensazione di una mezza scappatoia etica alla inevitabile condanna giudiziaria e morale. La redenzione passa sì attraverso l’ammissione di colpa e la rivalutazione di certi valori trascurati, ma il tutto un po’ artificialmente riacciuffato all’ultimo minuto. L’insistenza sulla famiglia come centralità del mondo e senso della vita, alla lunga pare davvero una specie di coazione senile. Al suo messaggio Clint ci teneva tanto che, guarda caso, sua figlia Alison interpreta nel film il ruolo della figlia.