C’era una volta la rivoluzione sandinista
Nicaragua: la triste parabola di Daniel Ortega. Da L’Altrapagina, mensile di Città di Castello.
Sono partito per il Nicaragua nel 1981 per vedere com’era una rivoluzione. Dovevo restarci sei mesi: sono tornato trent’anni dopo. Allora Daniel Ortega era stato scelto come primus inter pares fra i mitici nove comandanti della Direzione Nazionale: da un lato perché faceva parte della vittoriosa tendenza insurrezionale del Frente Sandinista de Liberaciòn Nacionàl (FSLN), che nel 1979 aveva rovesciato il dittatore Anastasio Somoza; ma soprattutto per il suo basso profilo rispetto al carisma di altri.
Quel decennio di straordinari progressi della rivoluzione sandinista è passato alla storia; così come la politica di aggressione degli Stati Uniti e il conseguente conflitto con i Contras, che mise in ginocchio l’economia nicaraguense.
Fino alla fatidica notte del 25 febbraio 1990: da presidente della repubblica (eletto nell ‘84) Ortega dovette accettare la traumatica sconfitta alle urne, consegnando il potere a Violeta de Chamorro.
Fu in realtà l’opera maestra della rivoluzione, che con quell’atto propiziava per la prima volta nella storia del Nicaragua un’alternanza democratica.
Ma se all’avvento del governo di Violeta (che si rivelò “centrista”) il Frente fece da sponda alla sua politica di riconciliazione nazionale, c’era chi all’interno del partito (in testa il segretario del Frente Daniel Ortega) opponeva resistenza, anche violentemente.
Finì per imporsi la linea dura, nel mezzo di una sequela di purghe ed epurazioni che costrinsero alcuni comandanti e fior di dirigenti ad abbandonare il FSLN e a costituire, alcuni di essi, il Movimiento de Renovaciòn Sandinista.
L’occupazione del potere
Dopo essersi garantito il controllo assoluto sul partito, Ortega si lanciò in un’abile quanto scientifica occupazione dei poteri dello stato; inizialmente in condominio con la destra somozista di Arnoldo Aleman, che si era imposto nelle presidenziali del ‘96 proprio a spese di Ortega. Insieme concepirono il famoso patto Ortega-Aleman, con una legge elettorale che neutralizzava qualsiasi loro avversario, a destra come a sinistra. Non dimentichiamo che Ortega, pur all’opposizione, poteva contare su una polizia e un esercito di fatto “sandinisti”, oltre che su un’importante presenza di fedelissimi nella Corte Suprema de Justicia e nel Consejo Supremo Electoral. Per ingraziarsi poi i favori della gerarchia cattolica, giunse a farsi risposare in chiesa da un suo storico nemico, il cardinale Miguel Obando y Bravo.
Il sempiterno candidato presidenziale raccolse i frutti di tanta pervicacia imponendosi nelle elezioni del 2006, grazie a quella legge elettorale ad hoc, con appena il 38% dei voti, e fra i primi atti del suo nuovo governo cancellò una vecchia legge che consentiva l’aborto terapeutico.
Successivamente, nel 2011, si ripresentò calpestando il dettato costituzionale che ne impediva la ricandidatura. L’Alta Corte addusse che il diritto di ogni cittadino ad eleggere ed essere eletto (contemplato dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) prevaleva sulla stessa Costituzione nicaraguense.
Tra i brogli denunciati dagli osservatori internazionali, Ortega si fece rieleggere a capo dello stato col 62,5% dei suffragi; guarda caso, una calcolata maggioranza dei 2/3 in parlamento che gli avrebbe consentito di riformare la Costituzione nel senso di una rielezione permanente. Cosa che si è puntualmente verificata. Fino alla farsa delle elezioni del 6 novembre 2016, in vista delle quali Ortega aveva disposto arbitrariamente la destituzione dei deputati dell’opposizione, designando di fatto chi avrebbe dovuto avversarlo.
Scontato il risultato: un 72,5% per lui, con un’affluenza alle urne del 68,2%; mentre l’opposizione, che aveva chiamato all’astensionismo, assicurava che neanche un terzo degli elettori era andato a votare.
Ma come dimostrare tutto ciò se Ortega aveva vietato ogni osservazione indipendente e internazionale? Un fatto è certo: girando per i seggi della capitale Managua ho potuto constatare personalmente una assai scarsa affluenza rispetto alle interminabili code delle elezioni del passato. Del resto, se Ortega si fosse sentito sicuro di un massiccio consenso, perché negare gli osservatori?
Come ciliegina finale, Ortega ha imposto nientemeno che sua moglie Rosaria Murillo (già primo ministro di fatto) come vicepresidente. Consorte che aveva già definito “eternamente leal” per aver preso le difese del marito quando nel 1998 sua figlia accusò il patrigno Daniel di avere abusato di lei fin dai dodici anni.
Come se non bastasse, la coppia ha collocato i numerosi figli nei gangli vitali dei media e dell’economia, profilando così una vera e propria dinastia.
Un confronto con Cuba
Vorrei a questo punto avventurarmi in un confronto. Fidel Castro e i suoi barbudos rovesciarono il dittatore Fulgencio Batista e il potere non lo mollarono più. Ma la domanda è: con quale risultato? Con i suoi livelli di educazione, sanità, cultura, uguaglianza e sovranità - pur a scapito di fondamentali libertà politiche e di pensiero - Cuba si è guadagnata un grande rispetto in tutta l’America Latina, e non solo. Anche Daniel Ortega (con il suo clan familiare) non ha nessuna intenzione di cedere le redini del Nicaragua, reprimendo ogni espressione del dissenso. Ma, nel suo caso, a che pro?
Ha concluso spregiudicatamente alleanze e corruttele con la vorace impresa privata locale, cui ha garantito esenzioni fiscali e pace sociale con i salari più bassi dell’intero istmo centroamericano. E sul fronte esterno, al di là di qualche sparata antimperialista, si è reso compatibile se non compiacente nei confronti di antichi avversari come il Fondo Monetario Internazionale, che anzi si congratula con Ortega per la lealtà alle regole e per i risultati di crescita economica. Per non parlare degli Stati Uniti, appoggiando (per esempio) il tanto famigerato trattato di libero commercio Cafta. Non è casuale infatti che il Nicaragua sia l’unico paese dell’Alleanza Bolivariana (che riunisce Venezuela, Cuba, Bolivia, Ecuador ed El Salvador) a non essere sotto lo scacco permanente dell’aggressione degli USA e degli organismi internazionali. E se qualcuno avesse ancora qualche dubbio sulla spregiudicatezza dell’ex comandante guerrigliero, basta menzionare i rapporti che intrattiene con loschi personaggi del malaffare internazionale.
Un esempio su tutti: sapete chi da anni è l’ambasciatore del Nicaragua in Uruguay? Nientemeno che Maurizio Gelli, ricercato dalla giustizia italiana, impegnato a Montevideo a gestire i beni ereditati dal padre piduista Licio.
Nel frattempo il paese (che Ortega è tornato a governare da dieci anni) continua ad essere il più povero del continente dopo il disperante Haiti. E lo slogan del nuovo “Nicaragua socialista, cristiano e solidale” si è ridotto a poco di più di una paternalistica distribuzione di animali da cortile e di qualche lamina di zinco per riparare i tetti delle catapecchie dei più poveri. Nulla di strutturale. Si salva forse un po’ il settore salute, mentre l’educazione è in mano alle pratiche mistiche della moglie-vicepresidente.
Va detto che in tutto ciò un importante elemento positivo permane: è tale il controllo onnicomprensivo dell’orteguismo sulla società, che il Nicaragua non è finito nella tragica spirale di criminalità e morte dei vicini Honduras, Guatemala ed El Salvador, che ne fa i paesi più violenti al mondo.
Ortega può certamente contare sul consenso dello zoccolo duro delle classi popolari, in particolare rurali, che vedono in lui la figura caudillista del “gallo ennavajado”. Ma è rimasto praticamente privo di intellettuali ed esponenti della cultura, dopo l’emarginazione della classe medio-alta progressista che aveva costituito il funzionariato ministeriale e operativo del governo rivoluzionario e del partito.