“Trento Filmfestival 2017”: 6 film
Alpinismo e molto altro
Non so se “Vergot” di Cecila Bozza Wolf mi sia completamente piaciuto, non saprei neanche dire a che genere appartenga. So che è un film potente. Il più forte, quello che più mi è rimasto impresso di tutta la 65a Edizione del Trento Film Festival. E fa piacere che provenga dalla sezione “Orizzonti Vicini”, ovvero quella dei film realizzati in regione o da artisti locali. Un lavoro originale, al limite del documentario, con materiale filmato reale, non ricostruito e non recitato, ma dal montaggio così efficace da sembrare quasi una fiction. Incredibili gli interpreti nell’essere se stessi, nel mettersi in mostra spudoratamente sinceri su una tematica che nel pudore e nelle vergogna ha le sue fondamenta.
Nel film una famiglia contadina, due fratelli e un padre rude, vivono tra i meleti e le vigne di una valle alpina dove tutti parlano un dialetto stretto e greve. Gim, 19 anni, ha scoperto di essere omosessuale, ma il mondo che lo circonda non riesce ad accettarlo, a partire da suo padre. Il fratello maggiore, Alex, da un lato spinge Gim a non autocommiserarsi e a vincere ogni paura, dall’altra tenta di portare avanti le tradizioni del padre. Dialoghi crudi, scontri cattivi e vuoti necessari a diluire la durezza di un conflitto tra mondi diversi e inconciliabili. Efficace ritratto di una realtà vicina nello spazio e lontana nel tempo, un microcosmo appena dietro l’angolo (da una inquadratura della campagna si scorge la cima del Bondone), in cui è ancora lontanissima l’accettazione del diverso.
Ogni anno è doveroso pagare pegno alle tradizioni del Festival, ovvero andare a vedere almeno un film della sezione Alp&ism, quella delle ascensioni. “Annapurna III-Unclimbed” di Jochen Schmoll è la documentazione di una spedizione di tre scalatori austriaci che tenteranno di risolvere uno dei grandi dilemmi dell’alpinismo: è possibile risalire la cresta sud-est dell’Annapurna III? Risposta: no. Qualcuno sui giornali locali ha recentemente parlato di redbullizzazione della montagna. Eccone un caso. Si arriva al campo base con l’elicottero, ci si acclimata con attrezzatura nuova di zecca e sponsorizzata (indovinate da chi?), si aspetta il giorno di sole giusto. Poi si fa un tentativo documentato da riprese vertiginose e montaggio fastidioso da videoclip, in cui la montagna è molto meno protagonista di quanto dovrebbe. Si torna indietro sconfitti, ma con un’esperienza e consapevolezza in più, attestata nelle dichiarazioni in primo piano che ci garantiscono che non finisce qui.
Altro film di montagna, però in concorso, è “Dhaulagiri, ascenso a la montaña blanca” di Cristian Harbaruk e Guillermo Glass. Quattro amici argentini decidono di girare un documentario che racconta la loro ascesa al Dhaulagiri. Ma Darío muore durante il tentativo di raggiungere la vetta in solitaria. Una volta rientrati, Guillermo tenta di rielaborare le domande che hanno continuato a tormentarlo dal giorno dell’incidente e in particolare le scelte che li hanno portati troppo vicino al limite estremo.
Ambedue i film sono stati premiati nella loro sezione, evidentemente erano i migliori, ma certo non esenti dalla retorica che affligge il genere: “Scalare un 8.000 è realizzare un sogno… uno che arriva a Kathmandu smette di essere agnostico… l’uomo chiede sempre di più, e di più in alpinismo è altitudine…”. Colpisce la superficialità delle riflessioni in relazione allo sforzo di profondità che permea il genere. Se sei uno sportivo non ci aspettiamo grande letteratura o filosofia. Ma se vuoi ammantare la tua impresa dei grandi valori esistenziali umani, allora vacci piano con i commenti in primo piano da reality show.
Insomma, meglio altre visioni. Ancora per “Orizzonti Vicini”, in “Sharp Families. Tagliati per gli affari” di Patrick Grassi, sono raccontate generazioni di arrotini della Val Rendena partiti per cercare fortuna nel mondo. Il mestiere si è tramandato di padre in figlio, per generazioni che vivono a cavallo fra tradizione e innovazione, da paesini come Carisolo a Londra, futuro e memoria. Un film semplice e una storia già raccontata, ma anche qui con garbo, attenzione e il giusto affetto.
“L’argonauta” di Andrea Andreotti è un esperimento discretamente riuscito di docufiction che ricostruisce la vita di Giuseppe Šebesta, etnografo, regista, scrittore e fondatore del Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina di San Michele all’Adige. L’intensa vita di questo studioso e artista è inevitabilmente ridotta ad alcuni passaggi cruciali, in un filmato che si avvale anche di parti interpretate da un attore. Con una bella e libera scelta estetica il regista non si preoccupa della ricostruzione d’epoca, ma racconta il personaggio a confronto con i frammenti di contemporaneità che per alcuni versi contengono ancora residui del mondo arcaico da lui studiato.
“See you in Texas” di Vito Palmieri è un altro strano oggetto al limite tra fiction e documentario. Silvia e Andrea gestiscono un’azienda agricola nella valle del Chiese. Il sogno di Silvia è però quello di perfezionarsi nell’equitazione, la sua grande passione, ma per farlo deve lasciare il mondo in cui vive. I protagonisti sono ripresi nella vita vissuta: lavoro, amicizie, allenamenti, competizioni, il cambio delle stagioni. Una quotidianità reale sulla quale però, con grande credibilità e semplicità si innesta una parte interpretata dai protagonisti. Semplice e sincero.
“Samuel in the Clouds” del belga Pieter Van Eecke è il vincitore dei questa edizione del festival. I ghiacciai della Bolivia si stanno rapidamente ritirando, ma Samuel, l’anziano gestore di una spettacolare seggiovia, continua ad accogliere i pochi turisti in arrivo da tutto il mondo. La seggiovia non funziona più perché da un decennio non c’è abbastanza neve sui pendii per gli sciatori. In basso l’enorme estensione del lago Titicaca, in alto la montagna brulla, una pietraia impervia sulla quale sale quotidianamente l’anziano Samuel. Al rifugio decadente sul bordo del precipizio, che sembra la capanna di Charlot ne “La febbre dell’oro”, arrivano in pochi per bere un veloce the e poi andarsene. Malinconica poesia e indiretta denuncia del nostro mondo sbrigativo, consumista, inetto alle trasformazioni. “Samuel in the Clouds” è un film sulla morte di un’epoca, di un clima, delle persone e del Mondo.