“Democracy in America”
Un fascino un po’ ermetico
Di “Democracy in America” di Romeo Castellucci alcune cose mi sono piaciute, altre meno e alcune no. Ispirato all’omonimo libro di Alexis de Tocqueville, lo spettacolo propone un sequenza di quadri che mescolano vari elementi iconografici, sonori, coreografici per raffigurare disparati frammenti della nascita di una nazione e della sua particolare forma politica.
Molto belle sono le parti scenograficamente pittoriche, con proiezioni su diversi piani di tulle trasparenti, fari in espanse luminosità, colori e costumi. In un quadro in particolare sembra di essere immersi in un’opera d’arte romantica americana alla Albert Bierstadt, con spazi naturali incredibilmente vasti, potenti, sovrastanti al punto da risultare indistinti, sfuocati nella loro enormità. Nitide invece le parole proiettate in sequenza che indicano i luoghi e le date degli eventi che hanno portato alla formazione degli Stati Uniti d’America: dalle prime battaglie per l’indipendenza, a varie dichiarazioni, al massacro di Gettysburg. E in traslucenza il balletto dei corpi e dei costumi a sottolineare, quasi in forma di sabba, la dinamicità del percorso storico, che si conclude con il lascito sul palco di un unico corpo nudo illuminato, un feto: la nuova Nazione.
Bello anche l’inizio con una sequenza di didascalie sul termine “glossolalia”, nell’accezione di parole di un linguaggio mistico sconosciuto. Definizione accompagnata da un canto sacro/pagano di semplici vocalizzi con sillabe senza senso, come parti di un rito religioso. Una prima sequenza che non può non collegarsi con l’ultima: il dialogo tra due nativi americani (anche questo con didascalie proiettate in lingua originale sottotitolata) che ragionano dell’incontro con i nuovi arrivati, invasori, esseri umani con i quali è impossibile comunicare e capirsi, non tanto per la diversità delle lingue, ma per le concezioni e percezioni del mondo che diverse lingue contemplano. Questa America, inizialmente ancora indefinita, in formazione, come il suo parlato nonsense e poliglotto, alla ricerca di trascendenza, troverà presto il modo di farsi lingua compiuta, e nella mancata comprensione dell’altro troverà pretesto di sterminio e sopraffazione.
E in mezzo? Altri frammenti che hanno portato alla composizione di questo paese. Il blues, per esempio, l’unico vero linguaggio americano autoctono. Ce lo ricorda un canto a chiamata e risposta di detenuti afroamericani ai lavori forzati che proviene dal fondo del palco. Parole e ritmiche ad esprimere il dolore di vivere in un mondo in cui sono stati trascinati a forza in schiavitù, un mondo che hanno contribuito a creare ma dove proprio quella rinata democrazia non li contempla come esseri umani pari agli altri.
Bella (per quanto un po’ lunga) anche la coreografia iniziale, con una squadra di portabandiera in divisa, che muovono stendardi riportanti ognuno una lettera per la composizione della dicitura “Democracy in America”. Partendo da questa, in un gioco di scomposizioni e ricomposizioni, vengono creati vari anagrammi, fino alla sequenza finale con nomi di stati come: Myanmar, Sirya, Iran. Paesi dove, non a caso, la democrazia proprio non c’è e dai quali ancora oggi tanti immigrati fuggono proprio verso l’America, dove vengono assimilati e inglobati, nel classico sogno di libertà e realizzazione, non di rado però attraverso la spoliazione e il sangue, come mostra un dissolvenza la sequenza successiva.
Meno riuscite, lunghe e faticose, le parti recitate. Ad esempio quella con una coppia di contadini puritani nel nuovo continente alla ricerca di una terra promessa da un Dio che pare però averli traditi. Dalla fede al dubbio, dalla speranza alla miseria, dalla rettitudine al peccato. È il dramma di una sconfitta nello scontro con una natura aspra e pagana, attrezzati di un antico verbo, importato dal vecchio continente, che nella raggiunta libertà di professarsi ancora schiaccia e condanna i deboli. E lo fa attraverso una comunità che interpreta rigidamente le antiche scritture di un Dio che si manifesta solo attraverso queste. Potente la dimensione simbolica del quadro, quanto pesante e non coinvolgente la messa in scena.
Infine non mi è tanto piaciuta certa retorica da altro teatro, con nudi ostentati, non gratuiti ma comunque narcisisti. Qualche artificio, qualche astrusità di troppo, alcune sequenze insistite. Poi qualche passaggio, pure affascinante, come le sbarre luminose sospese, con una colonna sonora molto bella, che però va al di là di una media comprensione e si svilisce nella sua ermeticità. Ma è così, questo tipo di teatro inevitabilmente finisce per infliggere una percentuale di sofferenza allo spettatore.
L’insieme dei lati negativi non pregiudica comunque il valore di un lavoro intelligente e ipnotico, di cui si apprezza il valore e il gusto più in riflessioni posteriori che nell’immediato.
Convince soprattutto il ragionamento su lingua e linguaggi. La capacità di rappresentare in modo libero e fantastico, attraverso danza pittura, teatro, musica, legami e soprattutto contraddizioni etimologiche, polisemantiche, metaforiche, storiche, politiche, religiose, filosofiche di un mondo in formazione.