Frutta e pesticidi: il problema è reale
E la popolazione comincia a prenderne coscienza. Le possibili soluzioni e il problema della qualità.
La questione relativa ai pesticidi, o fitofarmaci, e all’agricoltura intensiva con un attenzione particolare per la coltivazione delle mele ha scatenato diverse polemiche negli scorsi mesi (per non dire anni), senza che un quadro chiaro e netto potesse uscirne. La domanda che ne scaturisce è, di contro, molto semplice: quella dei pesticidi in Trentino Alto Adige è un’emergenza o no? Per l’assessore all’agricoltura Michele Dallapiccola “l’emergenza non riguarda l’oggetto (l’utilizzo dei fitofarmaci, n.d.r.) ma appunto la comunicazione riguardante l’oggetto. Il Trentino è un’eccellenza, ma questo non viene percepito. Rispondere nel merito delle contestazioni vorrebbe dire alimentare uno sterile battibecco” sostiene nell’intervista rilasciata all’Adige nel settembre scorso.
Vediamo dunque di fare un po’ di informazione.
Nel 2008 un rapporto dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) ha analizzato la presenza di pesticidi in diversi campioni di acque e terreni provenienti da diverse regioni italiane. Dai dati è emerso che il Trentino Alto Adige, territorio che vanta oltre il 70% della produzione nazionale di mele, utilizza più di 40 kg di fitofarmaci e coadiuvanti per ettaro coltivato contro una media nazionale di 9. È ormai noto che il dato così riportato perde di valore se non viene contestualizzato. Il valore infatti può risultare fuorviante se non si considera che in Trentino si fa riferimento ad una coltivazione intensiva, mentre nella media nazionale si tengono in considerazione anche colture estensive, come cereali e barbabietole, che richiedono quantità molto minori di pesticidi. Tuttavia bisogna tenere in considerazione non tanto il confronto con il resto di Italia, ma il valore assoluto del quantitativo di pesticidi utilizzato nel nostro territorio.
“Da allora il consumo complessivo di fitofarmaci è calato” rassicura l’assessore all’agricoltura in un’altra intervista del febbraio scorso, aggiungendo che “per la ricerca, le tecnologie e i progressi fatti da allora, questi dati sono preistoria”.
Nel rapporto ISPRA del 2014 si legge però che “la distribuzione dei principi attivi per ettaro di superficie agricola utilizzata risulta tendenzialmente in diminuzione o costante per tutte le regioni italiane, ad eccezione della provincia di Trento”.
Un’agricoltura urbana
Tuttavia il problema dei fitosanitari è intrinsecamente legato al nostro territorio, in quanto “quella Trentina è essenzialmente un’agricoltura urbana, dove 30.000 ettari sui 630 000 totali, sono coltivati in maniera intensiva” spiega Geremia Gios, professore di Economia agraria, che in Vallarsa ha iniziato un percorso di salvaguardia dai pesticidi.
In alcune aree della Val di Non le coltivazioni arrivano proprio in prossimità dei centri abitati e fin sotto le abitazioni. Per questo motivo l’utilizzo di sostanze anche solo potenzialmente dannose andrebbe evitato senza alcuna obiezione.
Lo stesso problema era stato sollevato nel febbraio scorso dalla trasmissione “Presa Diretta”, dove il presidente della Coldiretti Gabriele Caliari aveva precisato che esistono “fitofarmaci e fitofarmaci” e come “in Trentino si stiano impiegando da anni fitofarmaci meno pesanti e meno invasivi”.
Anche se il numero dei trattamenti che mediamente vengono fatti sui meleti non è calato negli ultimi anni, uno sforzo si sta facendo riguardo alla sostituzione delle sostanze che più sembrano dannose per l’ambiente e per l’uomo. Il processo di cambiamento appare però lento e difficoltoso. Vi sono infatti sostanze nocive che attualmente non vengono sostituite, perché capaci di ottenere degli effetti sulla protezione del prodotto non altrimenti ottenibili con altri composti. È il caso del Clorpirofos Etil, sostanza neurotossica, teratogena e mutagena bandita in molti stati tra i quali gli Usa, e ancora utilizzata in Trentino per un totale di 4- 6 trattamenti all’anno.
Altro esempio è dato dal Captano, sostanza con possibili effetti cancerogeni, consigliata nei bollettini diramati da S. Michele nel 2014 e presente come sostanza attiva e/o ausiliaria nella Guida disciplinare per la produzione integrata del melo, (IASMA 2014) della Fondazione Edmund Mach.
Ma che cosa significa la presenza di queste sostanze?
“Vi sono 4 possibili conseguenze dell’uso dei fitofarmaci: - afferma il professor Gios -sui consumatori, sugli operatori, sull’ambiente e sui residenti”.
Nella salubrità del prodotto e nella tutela della salute dei consumatori è stata posta molta attenzione. Nelle mele infatti le concentrazioni riscontrate di fitofarmaci sono molto basse, ben al di sotto della soglia prevista per legge. Per la tutela degli operatori, il Pan (Piano d’azione nazionale per l’uso sostenibile degli agrofarmaci) prevede corsi di formazione e controlli sulle attrezzature per l’applicazione dei prodotti fitosanitari.
A livello ambientale, purtroppo, stanno emergendo agli occhi dell’opinione pubblica (ma denunciati già da diversi anni dai comitati di valle) alcuni degli effetti nocivi e potenzialmente pericolosi dei pesticidi.
Lo stato dei corsi d’acqua
Dal rapporto del 2015 dell’APPA (Agenzia Provinciale per la Protezione Ambientale) emerge come alcuni corsi d’acqua mostrano uno stato chimico non buono dato dalla presenza di alti livelli sopra i limiti di legge di sostanze fitosanitarie come il sopracitato Clorpirifos.
I corsi d’acqua in questione sono il torrente Novella, il rio Ribosc e il rio Tuarezen o di Denno i quali, ad eccezione del torrente Novella, mostrano livelli oltre i limiti per molti anni consecutivi (almeno dal 2011 al 2014). Inoltre i torrenti Tresenica e Lovernatico sono in stato chimico a rischio per la presenza di Clorpirifos.
“Questi dati sono da ritenere molto preoccupanti, in quanto i pesticidi sono stati riscontrati in acqua corrente; ciò significa che l’inquinamento è praticamente costante per lungo tempo” sostiene Virgilio Rossi, portavoce del Comitato per il Diritto alla salute della Val di Non. In maniera indipendente, un’indagine condotta da Greenpeace sull’uso dei pesticidi nei meleti europei pubblicata pochi mesi fa riporta come “un campione italiano proveniente dalla Val di Non contenente clorpirifos-etile a una concentrazione superiore di 50 microgr/l superava il valore massimo di SQA” (Standard di Qualità Ambientale) sancito dalla direttiva Europea 200/60/CE. In aggiunta, il rapporto di Greenpeace riporta la presenza di altre sostanze in campioni di terra e acqua come Boscalid, Buprofezin, Etofenprox etc, alcune delle quali (Carbendazim e Endosulfan) risultavano non essere autorizzate dall’Unione Europea.
Se per i danni ambientali è possibile provvedere con i rilevamenti, pochissimo studiata è la condizione dei residenti che sono esposti alle sostanze irrorate sui meleti. Questa aspetto è poco studiato poiché in genere le aree agricole sono distanti dalle zone residenziali e quindi il caso trentino risulta uno dei pochi esempi. Ciò significa che è necessario porre ancora più attenzione a questo aspetto e aumentare le indagini e i rilevamenti per evitare tristi scoperte. Bisogna infatti tener presente che studi comprovati correlavano alcuni principi attivi utilizzati in passato nei pesticidi (come il Rotenone) con l’insorgenza di malattie neurodegenerative, come il Parkinson. In questi termini l’Azienda Sanitaria ha effettuato uno studio epidemiologico relativo agli anni dal 2000 al 2009.
Una ricerca difficile
La valutazione è stata eseguita per diverse patologie come tumori, linfomi, abortività, difetti neurologici, autismo e altri, e concludeva affermando che “non sono emerse evidenze tra la maggior densità di ettari destinati alla coltivazione di mele e l’insorgenza di patologie specifiche in Val di Non”. La portata dello studio è però stata ridimensionata dalla Sentenza del Consiglio di Stato del marzo 2013 e nuove ricerche sono in atto per valutare la presenza o meno di una correlazione fra i trattamenti chimici e la comparsa di disturbi neurologici.
“La difficoltà di questi studi è data dal fatto che uno degli effetti possibili delle sostanze fitosanitarie è quello di non alterare direttamente il DNA, causando così tumori o altri disturbi, ma bensì di agire a livello epigenetico, attivando o disattivando una o più componenti genetiche. In questo modo le conseguenze di queste modifiche epigenetiche si ritrovano nelle generazioni successive, complicando ulteriormente le indagini scientifiche” afferma Virgilio Rossi.
Con questo non si vuol fare del terrorismo, ma mettere in chiaro la situazione e ricordare che, come ha ribadito Michele Lorenzin, ex responsabile del Settore laboratorio dell’Azienda provinciale per la protezione per l’ambiente, “non si deve abbassare la guardia al fine di ridurre al minimo o eliminare gli effetti critici derivanti dall’utilizzo dei fitofarmaci”.