Prima l’alluvione, poi il colera
Cronache di un missionario dal Mozambico.
È piovuto tanto. Tantissimo. Ma è anche piovuto poco. Cioè, è arrivata tutta in una volta. Prima l’acqua è scesa dal cielo e ha rapidamente impregnato la terra. Poi è cominciata a salire dalla terra. Prima è salita dallo Zambesi. Pochi giorni dopo è salita dallo Chire, che dello Zambesi è affluente. Due fiumi in piena, con lo Zambesi che impediva il deflusso dello Chire. La terra e la sua gente stanno lì in mezzo. E la terra qui non ha argini. Così i letti dei due fiumi si sono allargati di chilometri e la grande pianura dello Chire e dello Zambesi è diventata un lago. Una domenica pomeriggio di gennaio avevamo l’ippopotamo a fare il bagno a 200 metri da casa nostra, e qui a Charre siamo a 15 chilometri dallo Zambesi. La stagione delle piogge dovrebbe protrarsi fino ad aprile; invece passa febbraio, passa marzo, passa aprile e il cielo, dopo averle fatto fare gli straordinari, pare avere mandato in ferie la pioggia.
Pai Bras, anziano catechista, dice che era dal 1974 che non si verificava una piena di questa portata. Centinaia di famiglie hanno perso la loro capanna e il raccolto. Per alcuni giorni, molti hanno trovato rifugio nelle chiesette di Nyaeka, Tembe-Tembe, Kanyungwe e Minyemba: nessuno è tanto povero da non dare nulla ad un altro povero.
Le piene si sono portate via anche alcune linee della fibra ottica. Così siamo rimasti per due mesi senza rete: l’unico posto della casa nel quale il telefono riceveva era da dentro l’armadio a muro della stanza degli ospiti. Un metro quadrato di provvidenziale cabina telefonica. Per due mesi le prime parole di ogni telefonata sono state le stesse: “Baba Andrea, tutto bene? Hai una voce un po’ strana...”.
“Chiedo scusa. È che sto parlando da dentro l’armadio”.
Più problematico mettersi dentro l’armadio col computer. Per non so quale arcano dell’etere, dopo qualche giorno ho trovato un poco di rete sotto l’albero di china, in mezzo all’orto di casa.
E dopo la piena è arrivato il colera. Una sera di aprile, dopo cena, battono alla porta per chiedermi di accompagnare un’anziana contagiata all’ospedale rurale di Mutarara, a 15 km da Charre. La signora, in fin di vita, viene caricata sul cassone del Land Cruiser. Arrivati a Mutarara, la signora viene posta sotto una tenda dove sono tenuti in isolamento i malati di colera. Prima di partire vengo disinfettato col cloro, assieme alla macchina.
A Mutarara il colera non c’era. Però c’era l’ospedale rurale con la tenda di isolamento per i malati di colera. A Charre, invece, il colera c’era. Ma non c’era la tenda di isolamento, così si doveva caricare il malato sulla bicicletta e avventurarsi per la strada sterrata che conduce a Mutarara. Oppure passavano da casa nostra sperando in un passaggio sul cassone della jeep.
Il governo e l’unità sanitaria locali inizialmente avevano negato l’esistenza del colera per timore di perdere la faccia e la poltrona. Durante questo tempo, i pazienti erano tenuti in isolamento all’esterno del piccolo dispensario di Charre. Isolati a modo loro: giorno e notte sotto gli alberi, stesi per terra, con la flebo appesa ai rami. Così è stato per le prime tre settimane dall’inizio dell’epidemia. A fine aprile si era arrivati a 15 morti in un piccolo villaggio di capanne come Charre. Inutile parlare col direttore dell’ospedale di Mutarara, con il Chefe de Posto, con l’amministratrice del Distretto di Mutarara.
Poi abbiamo tentato un’altra via: “Se entro domani non viene portata la tenda e le cure necessarie a Charre, chiamiamo la televisione”. Puntualmente il tutto è arrivato e ora la situazione va normalizzandosi.
Il colera si è portato via anche due amici: prima pai Djemule, padre di Carlos, il ragazzo che faceva il pane a Charre. A fine novembre Carlos era andato a cercare fortuna altrove. “Aenda kasaka ucherengi” (“È andato a cercare povertà”) - diceva pai Djemule, mentre impastava la farina, sperando in cuor suo di non dovere ricominciare il lavoro che aveva insegnato al figlio e che credeva di avere lasciato una volta per tutte.
Poi l’epidemia si è portato via anche Sabudo, il ragazzino che ogni lunedì mattina ci portava il latte per fare il formaggio. Sabudu era il primo dei quattro figli di mãe Flora, giovane vedova che avevamo aiutato a rimettere in sesto il tetto della sua capanna. Sabudu al mattino mungeva e andava a pascolare le vacche di pai Chibvuto e il pomeriggio andava a scuola. Il lavoro di Sabudu era l’unica fonte di entrata della famiglia.
Pai Djemule, Sabudu e tutti gli altri sono stati portati via dal colera, dall’inettitudine e dal lassismo di una classe politica parassita, incapace di vedere oltre l’orizzonte della propria pancia.
Crescita senza sviluppo
Il 25 giugno il Mozambico celebrerà 40 anni di indipendenza. Correva l’anno 1975 quando, dopo 11 anni di conflitto armato contro il colonialismo portoghese, si dichiaravano “indipendenti e liberi la terra e l’uomo”. L’anno successivo cominciò la guerra civile e il Mozambico diventò campo di battaglia di giochi di potere decisi altrove. Sedici anni di guerra, un milione di morti e cinque milioni di sfollati. Firmati gli accordi di pace il 4 ottobre del 1992, il Mozambico si è lentamente aperto alla democrazia; e più rapidamente si è aperto al capitale straniero.
Nel Canale del Mozambico c’è uno dei più importanti giacimenti di gas naturale del pianeta. Nel 2006 vennero date le prime concessioni e attualmente operano l’Andarko (USA), l’Eni (italiana), la Statoil (norvegese), la Cnpc (cinese), la Galp (portoghese) e la Petronas (malese). Si stima che nella sola area controllata dall’Eni ci siano riserve per 2407 miliardi di metri cubi di gas, sufficienti per soddisfare per oltre 35 anni il fabbisogno italiano. L’intero bacino pare custodisca oltre 6000 miliardi di metri cubi di gas.
Nella regione di Tete, nel distretto di Moatize (la cui parrocchia confina con la nostra) c’è il più grande giacimento a cielo aperto di carbone del mondo. Vi operano la Vale (brasiliana), la Rio Tinto (britannico-australiana) e la Icvl (indiana). Negli ultimi mesi sono arrivate una compagnia degli Emirati Arabi e un’altra del Kazakistan.
Il Mozambico è ricco anche di legname pregiato. La maggior parte delle concessioni sono in mano a imprese cinesi. È diretto in Cina il 93% del legname tagliato in Mozambico. Una Ong ha calcolato che il 49% sia tagliato illegalmente. Di questo passo nel 2029 termineranno le riserve commerciali di legname.
Il Mozambico è uno dei paesi africani che più subisce il fenomeno del land grabbing, letteralmente “accaparramento di terre”: grandi multinazionali si appropriano, in connivenza con élites politiche locali facilmente corruttibili, di vasti appezzamenti delle terre più fertili, generalmente all’insaputa delle popolazioni locali, che si trovano espropriate del bene primario di sussistenza. Nel settembre del 2009 i governi del Mozambico, del Giappone e del Brasile hanno firmato gli accordi per il “ProSavana”, un progetto che prevede l’acquisizione di un’area di 14,5 milioni di ettari nel nord del Mozambico da parte di imprese giapponesi e brasiliane per impiantare la monocultura della soia, del mais, della canna da zucchero e del cotone: un progetto immenso che abbraccia 19 distretti di tre regioni e dove risiedono 4 milioni di persone. I legittimi abitanti della terra rischiano di rimanere senza terra sulla propria terra. O, nella migliore delle ipotesi, di diventare manodopera a basso costo per le multinazionali del land grabbing. Come nel tempo coloniale. O peggio.
Intanto l’economia mozambicana cresce: con un incremento annuo del PIL tra il 7% e l’8%, il Mozambico è una delle tre economie dell’Africa sub-sahariana più attrattive per il mercato internazionale. Tuttavia questo non si traduce nel miglioramento delle condizioni di vita delle gente: fra il 1996 e il 2003 la percentuale di popolazione sotto il livello di povertà è diminuita dal 69% al 54%, ma negli ultimi dieci anni la percentuale è rimasta invariata, mentre il numero assoluto dei poveri è cresciuto di due milioni. In sintesi: una crescita senza sviluppo: il PIL cresce, ma l’economia non è in grado di trattenere la ricchezza perché controllata dal capitale straniero.
La nostalgia
Dal 28 di luglio al 22 di ottobre sarò in Italia per le ferie. Sono partito tre anni fa, quando Presidente del Consiglio era Mario Monti, presidente della Repubblica era un ex-comunista, il papa si chiamava Benedetto, il Presidente dell’Inter era italiano, il signor B. era ancora seduto sugli scranni del Senato della Repubblica. Sembra un secolo fa.
In questi tre anni, nelle lettere che ogni tanto ho mandato, credo di non avere mai parlato dell’Italia, neanche quando Renzi, nel luglio dell’anno scorso, è venuto in Mozambico in viaggio d’affari, come portaborse di Finmeccannica, venuta a vendere armi ad un paese dove il 54% della popolazione vive sotto il livello di povertà; e dell’Eni, coinvolta in un sistema di corruzione per la concessione delle licenze di gas naturale ottenute nel Canale del Mozambico e indagata per avere evaso il fisco nella transazione attraverso la quale ha rivenduto parte delle concessioni alla compagnia petrolifera di Stato cinese.
Non ho parlato dell’Italia di proposito. Volevo che queste lettere fossero una finestra su questo angolo di Africa. Non ho parlato dell’Italia, anche se ogni tanto ho avuto nostalgia. Nostalgie borghesi, come un caffè espresso al bar o un buon film al cinema. Non ho parlato dell’Italia, ma ci torno volentieri per alcune settimane. Perché ci sono dipendenze che sono doverose e alle quali si deve essere fedeli. Quelle che ci tengono attaccati alla vita.