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QT n. 6, giugno 2015 Monitor: Arte

Affidarsi al cielo. Arte e devozione a Montagnaga di Pinè

Miracoli dipinti

Osservando le tavolette dipinte degli ex voto provenienti dal santuario di Montagnaga di Pinè, da poco restaurate (Museo Diocesano, fino al 7 settembre; dal 7 luglio al 27 settembre anche presso Torre Vanga, a cura di Domenica Primerano, Domizio Cattoi, Lorenza Liandru), viene da pensare a quanto fascino esse esercitarono su quel meraviglioso artista che fu Tullio Garbari. Si era negli anni Venti del secolo scorso, quando ormai il fenomeno era in netto rallentamento e in mutazione.

In realtà, ciò che colpiva così profondamente il pittore perginese non era solo la disarmante semplicità di quel linguaggio, ma ciò che segnalava: una religiosità che spingeva le sue radici in un sostrato arcaico, pre-cristiano (“retico”, avrebbe detto Garbari).

Certo, osservare nel dettaglio queste scene in cui la dimensione divina sovrasta benignamente ma lascia almeno altrettanto se non più spazio alla descrizione delle cose umane, ci permette di leggerle come documenti storici della vita quotidiana. Ci si accorge, tra l’altro, che l’abbigliamento, gli arredi delle case, i corredi di coloro che hanno chiesto ed ottenuto una grazia non sono, in gran parte dei casi, quelli della povera gente e, pur tenendo conto che un povero nel giorno della festa mette il suo abito migliore, troppi elementi mostrano che la pratica dell’ex voto coinvolgeva ampiamente anche le famiglie agiate.

Di sicuro è un rito che appartiene alla società agraria e pastorale, in una lunga epoca che rimane gravemente segnata dalla precarietà: la casistica prevalente degli ex voto non è infatti quella, pure numerosa, dell’incidente, ma quella della malattia, sia degli uomini che del bestiame, delle ondate epidemiche di vaiolo e di colera che ancora nel Settecento e nell’Ottocento colpiscono pesantemente. Ed è quella, elevatissima, della mortalità infantile: c’è un impressionante quadretto in cui sono allineati, ai piedi della Madonna e accanto ai genitori, diciassette figli compresi quelli, quasi la metà, che una crocetta fa presumere morti. In questo caso non è precisato il motivo del ringraziamento, ma in altri è esplicita la grazia ottenuta di aver superato, sia la madre che il neonato, un parto difficile: la precarietà della maternità viene in grande evidenza, ed anzi si può dire che il rito dell’ex voto istituisca nel suo complesso una relazione privilegiata delle donne con la Madre celeste.

Non è possibile intendere bene il fenomeno dell’ex voto isolandolo dal suo contesto, vale a dire dal santuario e dal pellegrinaggio. La nascita del santuario di Pinè (piuttosto tardiva rispetto a quella, ad esempio, di San Romedio) è rivelatrice. Si tratta infatti di un culto che viene trasposto qui intorno al 1727, e che riproduce l’archetipo taumaturgico della Madonna di Caravaggio, in Lombardia, dove la Vergine sarebbe apparsa ad una donna nel 1432. Esisteva quindi, nel Pinetano e non solo, una devozione verso questa Madonna, precedente l’istituzione del santuario: fu l’iniziativa “privata” (il quadro che Giacomo Moser donò alla chiesa di Montagnaga) a dare impulso al culto lombardo in questa terra, fino al punto che anche qui avvennero le apparizioni alla donna di Pinè Domenica Targa.

Tutto, ad un certo punto, veniva ricondotto alla regìa sacerdotale, per dare forme codificate a qualcosa che traeva origine da ancestrali e impellenti bisogni di protezione e soccorso e che poteva imboccare, come accadeva, strade diverse da quelle ammesse dalla Chiesa.

La pratica dell’ex voto era certo il saldo di una promessa e una dichiarazione di fede, ma valeva - soprattutto nell’ottica del santuario e del clero - come testimonianza pubblica e mezzo di divulgazione ed ampliamento del culto.

La tavoletta dipinta risponde a un codice narrativo piuttosto preciso (un lavoro di studio basilare è quello pubblicato nel 1981 in concomitanza con la prima campagna di catalogazione sistematica di questo patrimonio nel Trentino, a cura di Gabriella Belli, con saggi di vari studiosi, incluso il non dimenticato Sebesta) e, come vediamo in mostra, qualcuno nel corso dell’Ottocento si specializzò fin troppo nella loro esecuzione standardizzata; ma ciò nonostante, e soprattutto nel primo secolo del santuario, incontriamo molte e differenti manifestazioni di espressività spontanea, che talvolta si lascia influenzare dalla pittura colta, ma più spesso punta senza complessi a rendere vivo il messaggio: modalità che si è talvolta voluto rubricare come “arte popolare”, senza però dare adeguato risalto al fatto che, come si accennava, sono spesso proprio i ceti agiati che vi ricorrono a piene mani, quando testimoniano la “grazia ricevuta”.