Ci si arricchisce sulla terra dei poveri
Cronache di un missionario dal Mozambico
Carlos ha un piccolo forno di mattoni. È costruito sulla nuda terra, a 50 metri da casa nostra, appena al di là della strada polverosa che porta alla frontiera col vicino Malawi. Con le stesse mani con cui ha fatto il suo forno, ogni giorno fa il pane. È un pane sui generis: commestibile, il primo giorno; rimbalza se cade per terra, il secondo giorno; verde di muffa, il terzo. Di fianco al forno, Carlos ha una casetta. Il tetto in lamiere di zinco, nel tempo del grande caldo, trasforma la casetta in un forno che non ha nulla da invidiare al forno del pane. Lì Carlos vende di tutto: pile, sapone, penne, fiammiferi, tazze di latta, sigarette sfuse. Oltre che, ovviamente, il suo pane. Il mese scorso, appoggiato al tavolo, trovo una copia del Diário de Moçambique, quotidiano stampato a Beira. È il primo giornale che vedo a Charre da che sono arrivato. L’occhio scivola sulla data: 27 marzo. Al vedermi interessato, Carlos esclama candido e compiaciuto: “È di quest’anno, signor padre!”.
Il parto
Una signora di età si avvicina e dopo gli abituali convenevoli, mi informa che la figlia si trova nel vicino posto di salute e deve partorire. Ha già avuto un’emorragia e bisogna portarla all’ospedale rurale di Mutarara, a 15 km da Charre. Prendo la jeep e vado al posto di salute. Neanche il tempo di chiedere il nome della donna e l’infermiere ha già caricato sul cassone della macchina un materasso sporco di sangue. La madre e la zia aiutano la donna a salire e a coricarsi. Nel frattempo arriva il marito che, trafelato, getta a terra la bici e salta sul cassone. Per la prima volta metto la quarta sulla strada sterrata che porta a Mutarara, zigzagando tra buche, capre e galline. Arrivato all’ospedale, scendo dalla macchina, pronto al peggio. E invece, durante la corsa, tra un buco e un salto, la donna ha dato alla luce un maschio. Si ride, si canta, si urla, si danza. C’è poi il tempo di presentarsi con pai António e mãe Zita, genitori per la sesta volta. E c’è anche il tempo per dare il nome al figlio appena nato. “Meu filho chiamar-se-á André!”, esclama, colmo di gioia e di gratitudine, pai António.
Le insidie della meccanica
Per un mese e mezzo, tutti i fine settimana che vado nelle comunità, continuo a bucare. La situazione assume tratti tragicomici quando, dopo essere partito un sabato mattina alle 4, buco una prima volta al sorgere del sole e, poco dopo, buco la seconda volta. Torno a casa o proseguo? Ho esaurito le due gomme di scorta e mi aspettano altri 100 chilometri, più i 200 di ritorno domani. Penso alle comunità, alla gente che aspetta. Mi assale uno slancio di impeto missionario e decido di proseguire. Tutto termina per il meglio. Ma immaginate il mio stato d’animo mentre guido, con ogni pietra all’orizzonte che diventa nel mio immaginario una sorta di mina pronta a farmi saltare per aria, e il sospiro di sollievo arrivando a casa la domenica a notte fonda.
A metà agosto, assieme agli altri Saveriani presenti in Mozambico, ci troviamo a Beira per cinque giorni di esercizi spirituali. È anche l’occasione per cambiare le gomme alla macchina. Torno a Charre assieme a Bonanne, confratello congolese. È inverno, tempo di secca, e optiamo per la strada di Inhaminga: non è asfaltata, passa in mezzo alla foresta, ma è poco trafficata (solo scimmie e camion di cinesi carichi di legname) e consente di risparmiare 170 km. “Gomme nuove, stavolta si viaggia tranquilli” mi dico. Ma dopo 70 km, accelero e il motore comincia a non rispondere. “Caro Bona, qui è partito il filtro del motore”. E ci azzecco.
Il meccanico Zé è a Caia: mancano 200 km da fare in prima, seconda o al massimo in terza nelle discese. Arrivati a Caia dopo un viaggio estenuante, Pedro, figlio diciottenne di Zé, cambia il filtro del motore, ma non è sufficiente. “Anche il filtro del serbatoio è intoppato. Bisogna smontare il serbatoio”. Pedro, aiutato da altri due ragazzi fa un lavoro eccezionale e alle 22.30 arriviamo a Sena. 330 km in 16 ore di viaggio: 13 seduto a guidare e tre in piedi dal meccanico. La mattina seguente, Bonanne si fa accompagnare a Chemba, mentre io carico la macchina sul battello e attraverso lo Zambesi. Ippopotami e coccodrilli lì a due passi.
La tragicommedia delle elezioni
Il 15 ottobre ci saranno le elezioni per eleggere il presidente della Repubblica, i membri del parlamento e delle assemblee regionali. Alla fine di agosto il governo e la Renamo hanno firmato l’accordo di pace, dopo un anno e mezzo di guerra che ha causato centinaia di morti. Guarda caso, l’accordo è stato firmato una settimana prima dell’inizio della campagna elettorale, più che probabilmente un teatrino orchestrato da Frelimo e Renamo per spartirsi, assieme al capitale straniero, le immense risorse naturali del paese ed estromettere l’MDM, forza alternativa nata sei anni fa che sta facendo della giustizia sociale e della lotta alla corruzione i punti forti del proprio progetto politico. Un teatrino ben sceneggiato, dove però le sofferenze e il sangue versato dalla gente non sono artificiali.
Chi è calpestato sono sempre i poveri. Ad esempio, qui a Charre, la Frelimo, per assicurarsi il voto, è arrivata a minacciare la revoca del sussidio di anzianità alle vedove. Così donne secche col volto scavato da una vita a zappare sotto il sole, con la polenta di miglio come unico cibo e quattro mucchi di paglia a fare da tetto, si trovano costrette ad acclamare i signori dalla pancia gonfia che le rendono schiave.
Che faranno queste donne se assieme al diritto al cibo, al diritto alla casa, al diritto alla salute, se assieme alla dignità e alla libertà, gli sarà portata via anche la terra? Assieme a loro, che farà tutto il popolo di Charre e di Nyangoma?
Nei fine settimana di settembre termino di incontrare le ultime delle 25 nostre comunità situate dentro l’area di 36.000 ettari che il Governo ha svenduto a un’impresa indiana per produrre canna da zucchero. Riunioni, confessioni, eucaristia, battesimi, matrimoni. E poi con la gente a vedere i campi coltivati a granturco, miglio, fagioli, patate, pomodori: dono di Dio e del lavoro di un popolo. Terra fertilissima bagnata da tre fiumi: Zambesi, Chire e Dzwe-Dzwe. Terra che è la vita di un popolo. In mezzo alla terra, i blocchi di cemento posti tre anni fa dall’impresa come segnali di demarcazione. I 25 villaggi sono isole in mezzo a quello che ha le carte firmate per diventare il mare letale della canna da zucchero.
L’acqua e la gente
Mattino di una domenica di settembre. Un’ora di macchina per fare 20 km tra buche, fossi e sentieri disegnati dalle ruote della bicicletta tra i campi coltivati. Poi la canoa per attraversare lo Dzwe-Dzwe. I bambini della comunità di Donça aspettano sull’altra riva. Il canto e il battito delle mani a distanza diventano danza ed esplodono nel sorriso raggiante e nel vociare allegro man mano che la canoa si avvicina. L’anno scorso, una mattina, la polizia è arrivata a Donça all’improvviso. Anche due anni fa era arrivata all’improvviso. Però, mentre allora si era limitata a intimare alle famiglie di lasciare terra e capanne, l’anno scorso è arrivata armata: ha picchiato gli uomini e distrutto qualche capanna. Nella vicina Panadza, la polizia ha anche abbattuto la chiesetta. E per indurre la gente a desistere, da cinque anni sono stati ritirati i maestri. Niente scuola, niente posto di salute, niente strade: rimangono solo la gente e le capanne. Ostinatamente incollate alla loro terra benedetta.
Tutto è cominciato con l’ultima grande piena dello Zambesi e dello Chire, che risale al 2008. Da generazioni la gente ha convissuto con le piene: quando il livello delle acque si alzava, con la canoa si trasferiva in aree sicure. Anche i coloni portoghesi, negli anni ‘50, avevano costruito in queste zone villaggi con case, negozi e scuole. Oggi rimangono solo i ruderi: la guerra ha distrutto tutto.
A partire dal 2008, la politica cambia: il Governo impone alle centinaia di famiglie che vivono nella zona di confluenza dei due fiumi di abbandonare la terra e le abitazioni. Ai primi che obbediscono garantisce il materiale per costruire una casa in zone non soggette a piene. Materiale scadente e insufficiente: è quello che rimane delle migliaia di dollari di aiuti internazionali che non sono finiti nelle casse della Frelimo e nelle tasche dei suoi funzionari. Come mai all’improvviso tanta dedizione e interessamento per la vita di poche centinaia di famiglie di contadini? Ci sono altri interessi? In effetti pare che il progetto del Governo di vendere tutta l’area compresa fra la confluenza di Chire, Zambesi e Dzwe-Dzwe risalga proprio al 2008: la motivazione delle piene sarebbe una giustificazione ammantata da intento benefico: con la scusa delle piene, intere famiglie vengono cacciate dalla propria terra, che viene venduta al capitale straniero. Ci si arricchisce e si banchetta sulla terra e sulla vita dei poveri.
In difesa della terra
Pai Tomé, catechista della comunità Panadza, ha gli occhi lucidi e la voce intensa mentre dice: “Qui sono vissuti i nostri antenati e qui vivranno i nostri figli. Non ce ne siamo andati durante la guerra, quando tutti fuggivano profughi in Malawi. Non ce ne siamo andati quando le piene hanno distrutto le capanne e i raccolti. Non ce siamo andati quando il Governo ci ha intimato di andarcene e ha mandato la polizia a picchiarci. Credi che ce ne andremo quando arriveranno quelli della canna da zucchero?”.
Pai Tomé è uno dei 25 rappresentanti della neonata Commissione di Giustizia e Pace. Dal 9 all’11 settembre abbiamo la nostra prima assemblea. Vengono tutti dalle comunità all’interno dell’area interessata dal progetto dell’agrobusiness della canna da zucchero. Dalle comunità più distanti arrivano in bicicletta la sera prima. Il primo giorno iniziamo la preghiera con le parole del profeta Abacuc che si rivolge a Dio esclamando: “Perché mi fai vedere l’ingiustizia e resti spettatore dell’oppressione?” Pai Alberto, della Commissione diocesana di Giustizia e Pace di Beira, con alle spalle anni di esperienza di difesa della terra, ci aiuta a conoscere il ruolo della Commissione dentro la comunità cristiana e la società civile. Per difendere la terra è prima necessario conoscere i propri diritti: così studiamo gli articoli principali della “Legge della Terra”, già tradotta in lingua Chisena da pai Alberto. Poco alla volta si prende coraggio, si vincono le paure, il senso di rassegnazione e impotenza. Si prende atto che la Legge della Terra è stata violata almeno nella fase delle consultazioni pubbliche che, di fatto, non sono state realizzate. Si aprono gli occhi e le coscienze. Si delinea un cammino da percorrere assieme. Nel frattempo, ad agosto, a Beira, oltre agli esercizi spirituali e a cambiare le gomme della macchina, prendo contatti con la Liga dos Direitos Humanos. Cerco e trovo avvocati competenti in materia di difesa della terra. Augurandomi che non sia necessario ricorrervi.