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Coop: rottamatore cercasi

Diego Schelfi

È stata noiosa l’assemblea della Federazione Cooperative di giugno: discorsi triti e ritriti, retorica cooperativistica a piene mani. Eppure, a guardare in filigrana, è stata quanto mai illuminante della situazione attuale del movimento.

Partiamo dal fatto più significativo, giustamente messo in rilievo dalla stampa. La richiesta di aiuto del Sait, che dietro la voce grossa richiede agevolazioni contro la concorrenza (Poli da una parte e Dao-Conad dall’altra, che è anch’essa coop, ma non inserita nel sistema e quindi malvista). E in nome di che si chiede aiuto dal pubblico? In nome dei piccoli negozi, tenuti aperti nelle realtà periferiche. In poche parole, siccome le Famiglie cooperative di fondovalle hanno dei punti vendita nei paesini, dovrebbero avere agevolazioni, ma non nel paesino, bensì a Borgo o a Cles o a Spiazzo. La trovata è troppo furba, originata da una concezione distorta del principio di concorrenza.

Su ben tre livelli: 1) Nei paesini non ci sono solo i punti vendita cooperativi a fungere da unico negozio: in diverse realtà l’unico piccolo esercizio è gestito da privati. Non si capisce perché debbano essere favoriti i punti vendita cooperativi e non il punto vendita in quanto tale, anche privato, magari dandogli la possibilità di assorbire molteplici funzioni, dalla posta al bar, al punto di ritrovo. 2) In fondovalle le Famiglie cooperative devono vedersela con gli altri competitor. Ma dovrebbero farlo alla pari, senza accampare scuse (per via dei punti vendita periferici) e richiedere privilegi, o peggio, sabotare gli altri, come dobbiamo vedere a Spiazzo, dove ancora stenta ad arrivare il via libera al supermercato di Poli perché la concorrente Famiglia coop non vuole. 3) Il problema delle coop non sono i paesini, all’opposto sono i Superstore, da diversi anni in passivo. Checché ne scriva l’ex-presidente Sait Giorgio Fiorini arrampicandosi sugli specchi della contabilità (in un intervento su L’Adige pretende di far quadrare i bilanci dei Superstore non contabilizzando la remunerazione degli investimenti) è quella scelta, a suo tempo presentata come la macchina dei soldi, da spendere poi nelle valli e nei paesini, a zavorrare l’intero movimento.

Questi argomenti sono stati ben illustrati da un editoriale del direttore Giovanetti su L’Adige. Noi aggiungiamo un ulteriore scenario. Dal buco Superstore si pensa di uscire vendendone le quote (il 50%) a Coop Italia, la quale, proprietaria dell’altro 50%, ne diverrebbe unica azionista. Ma a questo punto sarebbe libera di comportarsi da player nazionale della grande distribuzione, quale in effetti è, di attuare cioè una politica commerciale molto aggressiva, con pluri offerte a prezzi stracciati, per sbaragliare la concorrenza locale, Famiglie cooperative in testa. Bel risultato.

Ci siamo qui dilungati sul settore consumo in quanto quello più emblematico. Ma altre considerazioni si potrebbero fare sul sistema delle Casse Rurali. Che dovrebbero cercare una maggior efficienza in loco, incrementando le competenze del personale e preservando la declinante capacità di fornire credito in base alla conoscenza delle persone, che è sempre stata la marcia in più del credito rurale. E invece rincorrono unificazioni con gli istituti di Credito cooperativo del Nord Est, vagheggiando la costituzione di una banca italiana di medie dimensioni (cioè immediatamente dietro Unicredit e Banca Intesa). “Auguri!” il commento sarcastico in sala.

In conclusione, senza andare qui ad approfondire il pur importante significato dei casi patologici come la LaVis (ne parliamo ampiamente nel servizio a pag. 8), dai vistosi esempi che abbiamo riportato vediamo emergere due ordini di problemi di fondo, peraltro intrecciati. Anzitutto la difficoltà del movimento a rapportarsi con le grandi dimensioni, in quanto sembra acclarato che i tanti soci difficilmente riescono a controllare i manager. I quali si trovano, di fatto, a non rispondere più a nessuno, e quindi a potersi lanciare senza remore in avventure perigliose, in cui di proprio non rischiano nulla. Il secondo problema, conseguente, è l’incistarsi di un ceto di vertici inamovibili, che di fatto non rispondono del proprio operato.

Dieci-quindici anni fa, almeno, c’era la consapevolezza di questi problemi, e pur senza approdare a soluzioni, almeno se ne discuteva. Ora questi temi sono stati rimossi. Anzi. Con l’obbrobrio del quarto mandato a Diego Schelfi, si sta tornando indietro, i mandarini pretendono la carica a vita. La prima parte dell’assemblea infatti, riservata ai cooperatori, ha provveduto ad operare alcune modifiche statutarie: tutte nel senso di regolamentare, quindi di legittimare, le candidature oltre i limiti dei mandati, che ormai, di fatto, non esistono più.

In via Segantini ci sarebbe tanto bisogno di una radicale rottamazione. Ma non se ne scorge segnale alcuno.