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L’Islam è contro le donne?

Il maschilismo e la volontà di sottomettere la donna trovano nell’Islam sostegno teologico? Da “Una Città”, mensile di Forlì

Ghaleb Bencheikh el-Hocine
Foto di Valeria Zuliani

È vero, in alcuni paesi islamici, pensiamo all’Afghanistan, ma non solo, la condizione della donna è quasi subumana: la donna è considerata come un essere inferiore, è segregata... Tutto ciò mi disgusta e mi indigna, ma la vera domanda è: questa situazione è dovuta al machismo, al sessismo, alla fallocrazia, alla misoginia degli uomini, o è organico e strutturale proprio all’Islam come religione? Se infatti le cause sono il machismo, il sessismo, la fallocrazia e la misoginia degli uomini, la risposta non può che venire dall’educare, istruire gli uomini e le donne: un’enorme opera di acculturazione che necessita evidentemente di una grande volontà politica.

Tuttavia, se si considerano le regioni prospicienti il Mediterraneo si vede che la costa settentrionale e la costa meridionale non sono uguali, che machismo, sessismo, fallocrazia e misoginia, pur ugualmente presenti a Creta, Cipro, Malta, in Sicilia, Sardegna, Corsica, Baleari, assumono aspetti più gravi nella sponda meridionale del Mediterraneo, dove è presente l’Islam.

Quindi l’Islam è un fattore aggravante e il problema è a livello dei testi e della religione stessa. Allora forse occorre riflettere seriamente sull’importanza del testo coranico nella vita dei musulmani: che valore hanno i versetti coranici per i musulmani?

Premetto che negli scritti veterotestamentari e neotestamentari si trovano cose affini, e tuttavia è innegabile che l’impatto nell’immaginario, nelle coscienze degli uomini e donne musulmani, dei versetti coranici è di gran lunga superiore a quello degli scritti di San Paolo per la coscienza cristiana; mentre è forse assimilabile a quello del Pentateuco e della Torah per la coscienza ebraica.

Intanto va detto che la parte relativa alle prescrizioni del Corano era giurisprudenza per una società tribale e per un preciso momento storico, e quindi teneva conto delle contingenze umane articolandosi nella storia.Noi però sappiamo che le condizioni storico-sociali evolvono, facendo perdere di senso la finalità di tali prescrizioni, che quindi possono cadere in disuso, diventando obsolete: se la rivelazione coranica si fosse realizzata presso gli eschimesi, non si sarebbe mai parlato di velo perché la donna eschimese è già imbacuccata. Insomma, la prescrizione del velo era legata a un’idea di pudore in un preciso modello di società e in uno specifico momento storico.

Oggi l’equivalente del velo è un’idea della virtù, dell’onore che implica istruzione, conoscenza, sapere. Insomma, la relazione con Dio non passa necessariamente attraverso un pezzo di stoffa.

Per quanto riguarda la poligamia, va anch’essa ricollocata nel suo contesto. Bisognerebbe sempre leggere il testo globalmente; nel Corano se ne parla nell’ambito del mantenimento delle vedove e delle orfane: “Vi è possibile sposare fra quelle che vi piaceranno una, due, tre o quattro donne a condizione che siate equi, in caso contrario, se non potete essere equi nei confronti delle vostre spose... una sola sposa è la soluzione più vicina alla giustizia”. Ecco per sommi capi il passo che parla della poligamia.

Come va interpretato? A me sembra che per una società tribale in cui la poligamia era la regola, riportare a quattro il numero delle donne, nell’ambito semplicemente del mantenimento delle vedove e delle orfane, sia un progresso per l’epoca, per di più considerando l’imposizione di condizioni drastiche, ovvero l’equità non solo materiale, ma anche carnale, affettiva, sentimentale. Lasciando intendere che, siccome questo appare pressoché impossibile, è preferibile optare per una sola sposa.

Un altro punto riguarda l’eredità. Sostenere che per avvalorare una testimonianza occorrono due donne per un uomo (casomai due donne coltissime da un lato e l’idiota del villaggio dall’altra) ai nostri giorni appare inaccettabile, e comunque ridicolo.

Però dobbiamo anche ricordare che Marie Curie, due volte premio Nobel, non votava ed era stata ricusata come giurata in corte d’assise. Insomma, anche in Occidente il progresso e l’emancipazione sono recenti. Questo per dire che fra l’inizio del VII secolo fino a metà del Novecento il fatto di avere autorizzato due donne a testimoniare per l’epoca era un progresso. Quando si analizzano queste prescrizioni coraniche, bisogna tenere presenti le finalità, e non aggrapparsi ai mezzi. C’è il detto: “Quando il dito mostra la luna, l’imbecille guarda il dito”, che è quello che fanno i fondamentalisti.

Veniamo alla questione dell’eredità: alla figlia femmina spetta la metà di quello che va al maschio. Ecco, di nuovo bisogna avere presente l’intero quadro. Il maschio infatti aveva l’obbligo religioso di provvedere al sostentamento della famiglia, e poi la donna riceveva l’equivalente della dote, che unita alla parte di eredità del padre costituiva comunque una certa somma, in certi casi addirittura superiore a quanto posseduto del marito.

Ad ogni modo, oggi le cose sono cambiate, non c’è più un sistema tribale. Ormai l’uomo e la donna lavorano entrambi e decidono insieme sulla gestione, anche economica, della famiglia, quindi non c’è più ragione di conservare queste prescrizioni, che sono invece il pretesto avvalorato da uomini-macho per tenere la donna in una condizione inaccettabile.

Ricordiamo comunque che le musulmane non sono tutte come le donne afghane, la cui condizione offende la coscienza umana; c’è una situazione differenziata. Il paese musulmano demograficamente più grande, l’Indonesia, è governato da una donna. Anche il Bangladesh, che conta 110 milioni di abitanti, è governato da una donna e lo stesso capo dell’opposizione è una donna. Basterebbe guardare anche solo al numero di ambasciatrici, in particolare nei paesi occidentali: a Parigi, sono donne le ambasciatrici di Siria, Giordania, delle Comore, e ancora di Tunisia, Palestina, Kazakistan... Insomma che la situazione stia evolvendo è innegabile.

Cos’è la laicità?

Il dibattito sul velo in Francia ha riaperto una discussione anche sull’essere laici. Partiamo da cos’è la laicità. La definizione giuridica è la separazione della Chiesa e dello Stato. Questo, a mio avviso, non è sufficiente. Si potrebbe aggiungere una neutralità benevola della pubblica amministrazione che garantisce il libero esercizio del culto; ma neanche questo è sufficiente.

Secondo il mio punto di vista ci possono essere altre definizioni interessanti. La prima vede la laicità come una virtù, un valore, un bene, al pari della giustizia, della pace, dell’uguaglianza, della fratellanza. Si parlerà allora della laicità come di un forum, uno spazio, un modo di essere insieme al di fuori delle convinzioni religiose, che esistano o meno; una filosofia del modo migliore di vivere insieme, un ombrello sotto il quale ci ripariamo tutti.

Se la laicità acquista invece essa stessa una dimensione ideologica, diventa una dottrina che si pone in rivalità con le altre dottrine, la massoneria, i buddisti, i musulmani, gli atei; e invece di regolare l’insieme diventa uno dei concorrenti e avrà le sue messe e i suoi sacerdoti.

Venendo al caso specifico dell’Islam, c’è già un primo elemento di complicazione, perché nell’islam non c’è chiericato.

Nel Corano non c’è la separazione dei due ordini, non c’è l’equivalente del “date a Cesare”, ma nemmeno si danno indicazioni su come amministrare la città, né si dice che lo spirituale e il temporale devono stare assieme.

Io credo che i cristiani, almeno in Francia, abbiano trovato un buon modello di coesistenza armoniosa, intelligente e pacifica con la politica e lo Stato. Bisogna però ricordare che questo non è accaduto senza difficoltà.

Possiamo tutti rallegrarci di questo modus vivendi fra la Chiesa, in particolare cattolica, e lo Stato in generale, ma prima del 1905, “date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” non è mai stato brandito né da Bossuet, né da Fénelon, né da Bourdaloue, né da Massillon; nessuno dei grandi oratori e pensatori della cristianità si è fondato su questa espressione per lasciare gli affari del mondo ai responsabili politici. La Chiesa non ha rinunciato da sola, motu proprio, alla sfera temporale, ciò è avvenuto dopo un lungo travaglio.

I deputati che votarono quella legge vennero tutti scomunicati. La stessa legge in Francia è stata riconosciuta solo nel 1924, cioè 19 anni dopo, e solo nel 1946 c’è stato un assenso da parte del Vaticano.

Insomma, non c’è nessuna ragione per pensare che i musulmani non possano fare lo stesso sforzo, non c’è alcuna ragione per pensare che non avvenga la stessa evoluzione nell’ambito della Umma islamica, la comunità islamica nel mondo, tanto più che appunto non ci sono strutture clericali.

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Di origine algerina, Ghaleb Bencheikh el-Hocine è ma nato in Francia. È vicepresidente della Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace e insegna presso l’Espace Laic des Religions. Laureato in Fisica e appassionato di Teologia, cura il programma “Connaître l’Islam” (Conoscere l’Islam) dell’emittente France 2. Presiede inoltre l’associazione C3D (Cittadinanza, Doveri, Diritti, Dignità), nata per aiutare i cittadini di origine magrebina a prendere coscienza del loro ruolo nella società. Ha pubblicato “Che cos’è l’Islam? Per favore rispondete”, Mondadori, 2002.