Il velo e l’ altra metà del cielo
Meglio una donna repressa o una donna strumentalizzata? Ma la scelta dev’essere proprio questa?
La questione del velo sembra imperversare da qualche anno sulla stampa europea, a partire dal ben noto caso delle studentesse velate cacciate dalle scuole di Francia, sulla base di una inflessibile difesa della laicità dello Stato e dell’istruzione. In Italia se ne parla parecchio di recente, dalle polemiche tra il ministro Amato e la parlamentare di AN Santanché sino alla recente uscita di Beppe Grillo, che ha provocatoriamente affermato: piuttosto di questo sfoggio ributtante "di culi, tette e vagine" nelle tv notturne, meglio il burqa!
In Italia, il paese dei Concordati in cui la laicità alla francese non è di conseguenza praticabile, le argomentazioni anti-velo sono state, spesso, più ipocrite o strumentali: il velo, specie se integrale (il burqa, che copre anche il viso) urterebbe - s’è detto - contro alcune disposizioni della normativa anti-terrorismo (risalente alla legge Reale degli "anni di piombo") volte a tutelare la pubblica sicurezza. Ma nel dibattito, spesso acceso, si sono udite anche altre argomentazioni che hanno trovato sostenitori a destra e a sinistra: il velo sarebbe un segno di inferiorità, o di schiavitù morale, un marchio umiliante per le donne che, almeno nel nostro evoluto e civilissimo paese, andrebbe combattuto senza esitazione, proprio nell’ottica di favorire l’emancipazione delle ospiti straniere. Qualche leghista (o affine) si è sentito autorizzato ad aggredire per strada e "svelare" a viva forza le malcapitate, e qualcuno magari lo ha persino applaudito come nobile difensore dei valori dell’Occidente. Tra i sostenitori delle posizioni intolleranti si sente spesso dire che in certi Paesi musulmani (Turchia esemplarmente) la legge proibisce alle donne di portare il velo quantomeno nei luoghi pubblici; in altre parti (come nel Maghreb) il velo è visto da fette crescenti della popolazione come segno di arretratezza, come usanza spiacevole e nociva per l’immagine del Paese, che, di conseguenza, le autorità pubbliche e i media cercano di limitare se non di screditare. Altrove, viceversa, si pensi tipicamente all’Iran e all’Arabia Saudita, il velo è una imposizione legale fatta rispettare senza eccezioni e con una certa severità. Prescindendo da questi casi estremi, nella stragrande maggioranza dei Paesi musulmani vige una sostanziale deregulation della questione-velo, ossia una sostanziale libertà di scelta che si traduce di fatto in vistose differenze di comportamento: le donne delle metropoli, più sensibili alle mode e alle suggestioni euroamericane, tendono a svelarsi, mentre il velo resiste nelle periferie, nei villaggi, nelle campagne.
Questi pochi dati che ho voluto qui riassumere ci dicono anzitutto che il velo è una questione culturale piuttosto e prima che religiosa. Sotto questo aspetto dovremmo ricordarci –cosa stranamente dimenticata pressoché da tutti- che ancora negli ’50 in Italia (basta guardarsi qualche film dell’epoca) circolavano moltissime donne cristianamente velate, ossia donne che, uscendo di casa, mettevano un fazzoletto, una sciarpa o uno scialle sulla testa. Questa copertura della testa in pubblico faceva parte del decoro femminile allora comunemente accettato, anche se già in quegli anni l’usanza appariva in netto declino. Donne molto anziane che in conformità a questa antica usanza ancora si velano per uscire, si possono anche oggi eccezionalmente incontrare (ne vedo ancora personalmente qualcuna nelle campagne e persino nelle città venete). Questa usanza persiste tuttora in varie zone dell’Europa cristiana, specialmente nelle aree più povere e rurali dell’ Est e, meno, del Sud Europa, ma anche in vaste zone dell’America Latina.
Certo il velo di tradizione cristiana non è un burqa, ma obbedisce in fondo a una stessa ratio culturale, comune a tutti in popoli del Mediterraneo sin da tempi preislamici: quello di salvaguardare la dignità e il decoro delle donne in luoghi pubblici. S. Paolo nella Prima Lettera ai Corinti (11, 3-16) prescrive alle donne di coprirsi il capo quando pregano o partecipano a funzioni religiose. Le donne cristiane non solo presero alla lettera questa prescrizione paolina, bensì la estesero anche agli altri momenti della vita quotidiana fuori delle mura domestiche. E’ certo infatti che, dagli inizi del Cristianesimo sino a metà del secolo scorso, fra tutte le popolazioni mediterranee – ivi comprese le cristiane - era ampiamente diffusa l’usanza di far coprire in pubblico la testa alle donne con fazzoletti o veli di varia foggia e lunghezza.
I musulmani più ligi al costume del velo hanno oggi buon gioco a ricordarci le prescrizioni paoline e a farci polemicamente osservare che anche la vasta iconografia della Madonna - cattolica o ortodossa - è un eccellente argomento a favore del velo femminile…
Riassumendo: 1. il velo non è un segno specifico della religione islamica; 2. lo hanno portato le donne cristiane ben prima delle donne musulmane; 3. il velo è un fatto culturale, le cristiane e le musulmane sono tali anche a prescindere dal fatto che siano o meno velate; 4. in ogni tempo la società ha avuto una sua idea di decoro femminile e questa idea a ben vedere è stata largamente condivisa per almeno 12 secoli - dal VII al XIX - da cristiani e musulmani, ossia praticamente da tutte le popolazioni mediterranee, avendo proprio nel velo, ossia nell’idea che le donne debbano coprirsi in pubblico, un pilastro fondamentale.
Guardando la cosa da un altro punto di vista, quello delle leggi che garantiscono i diritti e le libertà individuali, credo che il problema si presti a ben poche discussioni: nessun ordinamento europeo proibisce esplicitamente altro abbigliamento che quello che offende il pudore e la pubblica decenza (ormai, in molte circostanze, neppure quello, stante l’evoluzione continua del "comune senso del pudore"). Talora, come ha proposto lo stesso ministro Amato, si dice che andrebbe proibito il burqa e tollerata magari ogni altra forma di velatura che non copra il volto. Ma più di un giurista ha sottolineato la capziosità della distinzione: anche chi porta il casco o un passamontagna si rende di fatto non riconoscibile; una suora che gira d’inverno con una sciarpa sulla bocca rischierebbe di incorrere in sanzioni….
Si potrebbe argomentare, e spesso lo si fa, che proibire alle donne musulmane immigrate in Europa di portare il velo sarebbe giusto il provvedimento che può aiutarle a emanciparsi, ad acquistare finalmente la dignità di donne libere. Argomento fragile, fragilissimo, e soprattutto a doppio taglio. Quale immagine dell’emancipazione e della dignità femminile - si risponde spesso da parte musulmana- ha oggi l’occidente cristiano? E perché dovrebbe, questa immagine, essere imposta alle altre culture? L’emancipazione - osservano polemicamente molte donne musulmane - consisterebbe in quel libero e intensivo sfoggio delle curve del corpo femminile che vien fatto sulle strade, nella pubblicità o nei film ? Consisterebbe nella libera scelta di essere allettanti oggetti, prede sessuali, piuttosto che persone considerate per le loro qualità morali e intellettuali? Consisterebbe nel far carriera ricorrendo alle armi del look più provocatorio, piuttosto che mostrando le proprie capacità professionali? Consisterebbe nelle libera commercializzazione della sessualità a ogni livello? Non c’è da meravigliarsi se non poche musulmane istruite, spesso proprio quelle nate in Europa, intervistate sull’argomento, rispondano tranquillamente che il velo se lo tengono ben stretto perché le preserverebbe in realtà da infinite molestie, da sguardi e attenzioni non richieste, perché si sentono insomma più rispettate proprio come persone. Colpisce in effetti come queste donne talora guardino alle loro coetanee cristiane, ritenute (inconsapevoli) schiave della linea, del look e della seduttività a tutti i costi, con una certa compassione…
La questione del velo, come si vede, implica tante altre più complesse (talora scomode) questioni e ci mette di fronte a un problema da troppo tempo trascurato o ignorato, forse rimosso: la dignità delle donne, ovvero l’idea che la nostra società ha del corpo (non solo femminile!), più in generale il tipo di emancipazione umana che abbiamo in mente nell’ Occidente cristiano. L’Islam delle donne col velo ci pone di fronte a domande eluse da tempo. Domande che la sinistra, in nome di una idea quantomai ideologica della libertà, ha preferito ignorare sistematicamente: roba da bacchettoni, da reazionari e repressi. Argomenti che, solo a toccarli, si finisce per essere etichettati per retrogradi. Eppure ci si dovrebbe chiedere ad esempio: fino a che punto in nome della libertà di opinione e di stampa, della libertà artistica e d’impresa, si può lasciare precipitare l’immagine della donna e del suo corpo? Queste libertà - storicamente una conquista dell’illuminismo, della rivoluzione francese, dei movimenti costituzionalisti dell’ ‘800 - erano state pensate per consentire la libera formazione e diffusione delle opinioni e delle idee politiche in società dominate da regimi assolutistici e liberticidi; ma chi sarebbe andato a pensare allora che queste stesse libertà, conquistate a durissimo prezzo dai patrioti, liberali e libertari, italiani e di mezza Europa, avrebbero un giorno garantito il libero commercio a tutti i livelli della dignità femminile? Si può sempre e comunque giustificare, in base alla libertà d’impresa, l’industria fiorente della pornografia, quella di concorsi di bellezza aperti alle bambine di dodici anni? Si può sempre e comunque giustificare, in base alla libertà artistica, l’arte di quel tale che presenta come suo capolavoro una "Madonna che piange sperma"?
Non sorge il dubbio, in qualcuno, che la preoccupante impennata di reati sessuali - violenze, stupri anche a danno di minorenni, per non parlare della moderna tratta delle schiave - registratasi negli ultimi anni possa essere collegata a questo sistematico degrado dell’immagine della donna? Che un altro bel frutto di questo degrado sia la moda che impazza tra gli studenti delle registrazioni-video sui cellulari delle imprese amatorie dei (magari ignari) compagni/e?
In conclusione, se la questione del velo ci farà riflettere su queste non proprio infime questioni, potremo dire che questa nostra cosiddetta società aperta si sta avviando verso un fruttuoso confronto inter-culturale. A patto però che si rinunci all’idea, falsamente pedagogica e progressista, in realtà reconditamente razzista, che noi possediamo la verità ultima sulla donna, sul suo corpo, sui suoi dritti, sul suo futuro, su cos’è l’emancipazione, e che avremmo perciò il diritto-dovere di imporre la nostra superiore visione -magari per legge - agli altri. Se infatti prevarrà l’impostazione pedagogico-aggressiva di chi pensa di avere la verità in tasca, posizione in realtà autoritaria e etnocentrica, il confronto inter-culturale su questi che non sono meri aspetti del costume bensì implicano questioni capitali di valore e di senso, verrà meno. Allora la società si chiuderà, e si spalancheranno le porte alle contrapposizioni tribali in cui inevitabilmente aumenterà il rischio dell’incomprensione dell’altro e con esso il tasso di ostilità e intolleranza reciproca.
Oggigiorno la nostra composita e ormai multietnica società presenta, con riguardo alle donne, atteggiamenti schizofrenici: da un lato, quello del mondo cristiano-occidentale, troviamo una incondizionata idolatria delle libertà individuali che sfocia in licenza sfrenata, supportata peraltro da una pubblicità assordante che tutto sessualizza e che legittima il culto liberatorio della trasgressione; dall’altro, il mondo musulmano degli immigrati ci ripropone silenziosamente e in modo per noi inquietante una immagine esattamente opposta, che ci appare cupa e antiquata. E’ l’immagine di una donna protetta dal velo, un’immagine di conturbante "purezza", di intangibilità e inviolabilità, che, paradossalmente, corrisponde proprio a tanti cristianissimi valori comunicati dall’iconografia tradizionale della Madonna e oggi, innegabilmente, caduti in disuso…
Da una parte, il diritto riconosciuto ai media di lordare senza limiti la figura e l’immagine della donna, la metà del cielo (il resto lo hanno già ampiamente lordato le nostre industrie), per il piacere del maschio evoluto, consumatore intelligente di pornografia e libera sessualità; dall’altro una difesa ostinata (disperata?) di una immagine di pulizia e dignità che, ai più, pare semplicemente sinonimo di battaglia retrograda, reazionaria, anti-femminista, medievale, oscurantista.
Ma è proprio così? L’Islam non ci sta forse ricordando - proprio attraverso il velo - da dove eravamo partiti e dove siamo arrivati? Non ci sta costringendo, a proposito della questione della dignità femminile, a chiederci - e forse è qui una radice del nostro fastidio crescente - dov’e che stiamo andando? Nessuno pensa, naturalmente, a proporre la donna col burqa o in chador come modello della donna di domani, ma dovremmo chiederci: passare dal modello-Madonna al modello dell’altra Madonna - l’omonima pop star italoamericana - è un esito da considerare gratificante e soddisfacente dopo 2000 anni di evoluzione dell’idea della donna? Perché questa brillante evoluzione dovrebbe entusiasmare le musulmane o le indù o le buddiste?
Dovremmo, credo, deporre ogni arroganza pedagogica, cominciare a riflettere meglio, confrontando piuttosto che giudicando, e magari pensare a cambiare qualcosa nella nostra evoluta e superiore civiltà prima che nelle altre.