Protonterapia: una difficile scommessa
Al via il Centro di Protonterapia, all’avanguardia, figlio di bilanci floridi eppur realizzato nei tempi e costi preventivati; si apre ora una complicata sfida per farlo funzionare e autofinanziarsi.
Sono aspre le polemiche attorno al nuovo centro di Protonterapia di Trento, da poco sorto nella località Mas Desert a sud della città. Costosissimo (in tutto 200 milioni, come vedremo), e al contempo così all’avanguardia nella cura di varie tipologie di tumori da non vederne ufficialmente riconosciuta l’efficacia né pienamente esplorati i possibili utilizzi. Insomma, un classico frutto del dellaismo migliore (quello peggiore, con clientelismi e poteri forti, qui non c’entra): grandi investimenti per idee d’avanguardia. Forse troppo grandi e troppo d’avanguardia per l’oggi, ai tempi della crisi e dei bilanci ristretti. Comunque, ormai il Trentino ha pesantemente puntato su questa tecnologia d’avanguardia. Una scommessa. Vinta, per ora, soltanto a metà.
L’aspetto scientifico
La IMPT (Intensity Modulated Proton Therapy) è un trattamento radiante di precisione e il meccanismo con il quale questo tipo di protonterapia distrugge le cellule tumorali (vedi box) è simile a quello che viene usato oggi nella radioterapia con i raggi X (IMRT, Intensity Modulated Radiation Therapy).
Svariati studi clinici mostrano come l’efficienza della Protonterapia nel ridurre la dimensione della massa tumorale, a parità di dose, è pressoché uguale alla radioterapia tradizionale. L’aspetto interessante è dato dal fatto che, mentre i raggi X rilasciano costantemente energia lungo tutto il loro percorso, i fasci di protoni liberano un massimo di energia in un punto specifico. Tutto ciò permette una maggiore precisione dell’intervento, che si traduce in una notevole riduzione dei danni a carico dei tessuti sani che circondano il tumore, portando quindi ad una diminuzione degli effetti collaterali. In questo dato, estremamente importante se si pensa a tessuti molto sensibili come il cervello o altri organi vitali, sta il valore aggiunto di questa terapia.
Si pensi, ad esempio, al caso di un tumore su un bambino. La possibilità di combattere il tumore senza ledere i tessuti vicini, che sono in piena fase di crescita, potrebbe garantire una maggiore probabilità che questi crescano in maniera normale, senza portare a disturbi “secondari” che si possono manifestare in età adulta.
In virtù di questa precisione, la protonterapia mostra anche un vantaggio fisico che sta nella minor quantità di radiazioni utilizzate sul paziente.
Vantaggio fisico, vantaggio clinico
“Se questo vantaggio fisico si traduca poi in un vantaggio clinico, non è stato ancora provato” precisa il professor Renzo Leonardi, docente a Fisica a Trento e soprattutto “padre” della protonterapia trentina. Infatti, dall’attuale stato dell’arte della protonterapia non emerge nessuno studio che riporti in maniera statisticamente valida un aumento dell’efficacia della terapia tale da giustificare l’enorme spesa di investimento (circa 2.4 volte quella della terapia con i raggi X). Nel 2013 Ruysscher e colleghi (“Radiotherapy and Oncology”, 103, 5-7) hanno pubblicato i risultati ottenuti da un gruppo di pazienti seguiti per 5 anni dopo che erano stati sottoposti al trattamento con i protoni. I dati così ottenuti non hanno però evidenziato né una differenza significativa nell’allungamento della prospettiva di vita, né nella attenuazione di scompensi (come l’impotenza data dalla cura tradizionale contro il cancro alla prostata) in confronto con altre terapie basate sulle radiazioni.
“L’indagine scientifica per queste nuove terapie si basa sul principio dell’ as good as - spiega Leonardi - Si parte dal fatto che la tecnica in analisi, conservando la stessa efficacia, non presenta risvolti negativi rispetto ad una tecnica tradizionale. Dopo di che si indaga per capire se, in certi ambiti e con certe malattie, si possono ottenere dei benefici maggiori”.
Da questo lato, un aspetto della protonterapia spesso criticato è la possibilità di portare miglioramenti solo su un numero ristretto di tipologie oncologiche. A livello teorico, possono essere trattati con la protonterapia tutti i tumori che normalmente vengono curati con la tradizionale radioterapia. Ciononostante, essendo una terapia relativamente recente, esistono lavori che testimoniano l’effetto dei protoni solo su un numero relativamente ristretto di tumori.
Tra le patologie che possono essere trattate con questa tecnica ci sono alcuni tipi di tumore polmonare, i tumori oculari, i sarcomi alla base del cranio e i tumori cerebrali, i tumori del pancreas, della vescica, del fegato, dell’esofago e del tratto gastro-intestinale. Particolarmente efficace sembra essere nel trattamento dei tumori solidi pediatrici. Un lavoro di R. Mailhot Vega del 2013, basato su previsioni statistiche relative al medulloblastoma (tumore cerebrale maligno molto frequente nell’infanzia), ha evidenziato che il trattamento con i protoni potrebbe far risparmiare al paziente molti interventi futuri con un significativo guadagno sia in termini clinici che economici.
Per altre tipologie di cancro, invece, il “delicato” calcolo in termini di costi-benefici, non motiva sufficientemente la spesa del trattamento, come nell’esempio del tumore alla prostata, la patologia considerata più adatta ad essere curata con la protonterapia e sulla quale il Centro di Trento ha intenzione di iniziare a lavorare.
A onor del vero c’è da dire che per ottenere risultati definitivi sarebbero necessarie delle analisi “randomizzate” su un consistente numero di pazienti; sottoporre cioè alcuni pazienti alla cura che si ritiene più appropriata mentre altri ad una cura meno efficace. Questo sistema, tipicamente usato nelle scienze, solleva però non pochi problemi etici.
È chiaro che la ricerca in questo campo è ancora agli albori ed è altrettanto chiaro che importanti sforzi devono essere fatti per confermare l’effettivo vantaggio clinico della terapia, permettendo così di comprendere meglio quali sono le sue potenzialità teoricamente enormi. Per rendere lo sviluppo della ricerca più rapido, è però necessaria un’espansione della rete internazionale di conoscenze attraverso una maggiore condivisione dei dati, delle ricerche di base e degli avanzamenti tecnici, tenuti invece avidamente nascosti per interessi economici. Tutti i centri dovrebbero avere come obiettivo principale quello dello sviluppo della conoscenza e della condivisione. Speriamo che Trento, con la sua struttura di ultima generazione, si ponga all’avanguardia anche in questo senso.
Il Centro di Protonterapia di Trento
Il centro di Protonterapia di Trento (CPT) si inserisce tra gli istituti più innovativi del mondo nel campo della terapia con le particelle. Il Centro è costituito da una moderna infrastruttura clinica che contiene un acceleratore di protoni (ciclotrone), un sistema di rilascio dei protoni, apparecchiature di imaging (TAC, RM), due sale isocentriche di trattamento (gantry) ed altre caratteristiche che, per ora, lo rendono unico nel suo genere.
Per portare tutto ciò a Trento, la Provincia deve impiegare circa 200 milioni di euro (104 in gran parte già versati, e circa 93 milioni per l’attività di manutenzione e operatività da versare in 15 anni) ai quali vanno sommati i costi di gestione e del personale.
“Va premesso che il progetto del Centro di Protonterapia è stato finanziato nell’ambito dell’assessorato dell’Università e Ricerca - precisa Leonardi - e che le risorse che la Provincia ha deciso di mettere a disposizione di ATtreP (Agenzia provinciale per la Protonterapia) non sono state quindi sottratte alla sanità, ma fanno parte del budget della ricerca scientifica”.
I 104 milioni spesi nella realizzazione del Centro infatti non saranno ammortizzati, mentre i costi di gestione e di manutenzione (circa 13 milioni all’anno) lo saranno a partire dal 2016, con l’entrata a pieno regime del Centro.
Calcolatrice alla mano, per raggiungere un equilibrio fra entrate ed uscite, sarà necessario curare circa 700 pazienti all’anno, con un costo medio di 20-22 mila euro per trattamento. Se si considera che il centro di protonterapia di Boston, all’interno dell’Università di Harvard, cura in media un migliaio pazienti all’anno, le stime non sembrano così irraggiungibili. Bisogna però tenere conto di alcuni aspetti.
Da dove arriveranno i pazienti
Valutando le possibili patologie che possono essere trattate con un vantaggio terapeutico, il bacino d’utenza necessario per avere 700 nuovi pazienti all’anno è di circa 3 milioni di abitanti, corrispondenti pressappoco al Trentino Alto Adige e alle Province di Verona, Padova e Vicenza.
L’Azienda sanitaria prevede infatti che circa l’80% dei pazienti arriverà dalle altre regioni italiane e, affinché questo accada, serve che le varie regioni stipulino convenzioni con il servizio sanitario trentino.
“Visto che si tratta di un centro unico a livello nazionale, si pensa di poter attrarre pazienti non solo locali ma anche nazionali e da oltreconfine, sfruttando i vantaggi della Schengen sanitaria” - afferma Maurizio Amichetti, direttore dell’Unità Operativa di Protonterapia.
Gli altri centri
Ad offrire la cura con protoni sul territorio nazionale esistono già gli istituti di Pavia e di Catania.
“Bisogna precisare che il Centro di Catania usufruisce dell’acceleratore di protoni, appartenente al centro di ricerca, una settimana ogni due mesi per curare solo patologie all’occhio - spiega Leonardi - mentre il CNAO di Pavia, con il quale abbiamo già diversi contatti, è autorizzato a trattare i pazienti che rientrano nei protocolli clinici approvati dal Ministero, anche utilizzando altri tipi di particelle”.
A livello europeo sono presenti invece cinque centri che già offrono la protonterapia, come il centro ospedaliero Rinecker Proton Therapy Center di Monaco, il centro di Heidelberg e quello di Essen, in Germania, il laboratorio Paul Scherrer Institut in Svizzera, e il centro di Praga, nella Repubblica Ceca.
“I centri di Monaco e di Praga, come altri, sono privati e concepiti per fare business. - continua Leonardi - La nostra prospettiva è diversa: lavoreremo su un numero di pazienti minore in una dimensione medio-piccola, più simile a quella dell’ospedale parigino Curie con il quale infatti collaboriamo”.
La competizione certo non mancherà, anche perché circa una decina di nuovi centri in tutta Europa sono attualmente in fase di costruzione e di progettazione. Ma nonostante questo, il direttore e altri collaboratori sono concordi nel dire che, a regime, il centro si troverà a gestire “un eccesso di domanda” che solleverà dei problemi nella gestione degli accessi tra i casi che realmente ne hanno bisogno e quelli in cui risulterebbe un palliativo.
“Ci sarà una grande richiesta nella misura in cui la struttura avrà dimostrato di funzionare bene. Per questo bisogna partire con la giusta cautela” sostiene il dottor Enzo Galligioni, primario di oncologia del Santa Chiara.
E la campagna d’informazione?
Molta “cautela” è stata infatti mantenuta in relazione alla pubblicizzazione dell’opera. Un aspetto che, al pari dei macchinari di ultima generazione e del personale altamente qualificato, riveste un’importanza strategica. È infatti fondamentale farsi conoscere dai possibili pazienti e, prima di loro, dai medici, che devono essere a conoscenza della possibilità di adottare anche questa strategia nella cura di alcune malattie.
“Si è voluto mantenere un profilo basso nella pubblicizzazione del Centro per tre motivi principali. - continua Leonardi - Anzitutto non sarebbe stato rispettoso nei confronti dei pazienti pubblicizzare una cura che sia non immediatamente disponibile. In secondo luogo, il centro è divenuto operativo dopo i collaudi terminati solo da poche settimane, prima dei quali non si era certi del corretto funzionamento dei macchinari. Infine abbiamo profuso il nostro impegno senza voler sovrastimare l’opera”.
Il risultato è che, escludendo quelli del mestiere, molti cittadini trentini non sanno tuttora dell’esistenza di questo centro all’avanguardia presente sul loro territorio e gli altri ne sono venuti a conoscenza a causa delle polemiche sul denaro pubblico utilizzato per costruirlo.
Considerando che il centro ha un costo medio di circa 500 mila euro al mese solo per le spese di manutenzione e operatività, forse sarebbe il momento e il caso di abbandonare questa cautela e dare il via ad una campagna di pubblicizzazione a livello nazionale e internazionale iniziando, per esempio, da un semplicissimo sito web.
Gli addetti ai lavori
“In ultima analisi, tuttavia, sarà la qualità e la professionalità dell’équipe medica e fisico-medica ad attrarre l’attenzione dei pazienti ad un Centro di Protonterapia” - si legge nella risposta all’interrogazione n. 2775/XII presentata dal consigliere Erminio Boso nel 2007.
Il Centro di Boston è in grado trattare un migliaio di pazienti all’anno grazie, soprattutto, al lavoro di un’équipe che è tra le migliori al mondo. E a Trento?
Attualmente in pianta stabile ci sono una decina di persone (4 medici, 4 fisici-medici e 3 amministrativi). Per il 2014, secondo il documento redatto da ATreP nel 2010, il personale dovrebbe diventare di 47 unità distribuito tra le varie aree. In previsione di un aumento graduale del numero dei pazienti e della complessità dei trattamenti nel corso dei primi anni, il numero finale di persone che dovrebbero lavorare nel centro sarà circa 70.
La mancanza di un organico sufficiente è il vero punto debole del progetto dal quale potrebbero nascere spiacevoli e costosi inconvenienti. La formazione degli addetti ai lavori, come, ad esempio, stage all’interno di altri centri internazionali di protonterapia, sarebbe dovuta iniziare già diversi mesi fa per garantire un personale preparato e pronto ad operare non appena il centro sarebbe finito.
È bene considerare, infatti, che se non si raggiungeranno le cifre sopraindicate, sarà impossibile trattare i 150 pazienti previsti per il 2014, così come i 700 pazienti nel 2016. Ogni stima andrebbe quindi rivista al ribasso. Se si tralascia il fatto che il centro costa circa mezzo milione di euro al mese e ogni giorno di inattività è un dispendio inutile di denaro, non si può però trascurare che questo ritardo nell’aspetto clinico impedisce a molti pazienti di essere curati.
Il gioco vale la candela?
Oltreoceano la protonterapia è considerata l’esempio emblematico del “lato oscuro della medicina americana” dove, per ottenere i generosi finanziamenti che l’organizzazione sanitaria offre alle ricerche innovative, vari centri si stanno dotando della costosissima strumentazione. Questo fa sì che un ospedale che ha investito molto in questo settore tenda a fare pressione sui medici affinché consiglino la protonterapia anche quando cure meno costose sarebbero sufficienti. Esistono però anche molti esempi positivi, come il Loma Linda University Medical Center in California, attivo dal 1990, che ha curato, ad oggi, più di 13. 000 pazienti con ottimi risultati.
In Europa e in Italia la situazione è molto diversa, così come è diverso il sistema sanitario. Anche per questo risulta di cruciale importanza capire se il costo-beneficio della protonterapia possa giustificare la spesa. Per capire se davvero il gioco vale la candela sono necessari molti altri dati, ottenibili soltanto dalla ricerca per la quale, di conseguenza, servono finanziamenti e soprattutto nuovi centri.
Per quanto riguarda il centro di Trento, nella partita diventa decisiva la posizione del Ministero della Salute, al quale compete la decisione se inserire o meno la nuova terapia all’interno dei Lea, i Livelli Essenziali di Assistenza che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a offrire a tutti i cittadini. In questo modo i 20-22 000 euro del trattamento, prima a carico dei pazienti, sarebbero stanziati dallo Stato, garantendo così la sostenibilità economica della struttura.
“Ora siamo nella fase di preparazione del documento riguardante le condizioni e i protocolli del Centro da presentare al Ministero, il quale è già a conoscenza del progetto. - dichiara l’assessore alla Sanità Donata Borgonovo Re - Non posso però prevedere quali saranno le tempistiche, dipende da quando sarà pronta tutta la documentazione”.
Ma è nella consegna del Centro da parte di ATreP (Agenzia provinciale per la Protonterapia, organo costituito ad hoc per sovraintendere ai lavori di realizzazione e di attivazione del Centro) all’Azienda sanitaria, che Trento gioca la sua vera scommessa.
Si tratta, in fondo, di portare una tecnologia sperimentale e innovativa dentro un sistema sanitario tanto grande quanto complesso (e un po’ lento nella gestione dei servizi). L’Azienda Sanitaria, infatti, non è chiamata a gestire un semplice reparto del nuovo ospedale in costruzione, ma un istituto all’avanguardia che ha necessità, per sopravvivere, di mantenersi in prima fila in un campo innovativo a livello mondiale.
Questo, in parte, è già in atto. La costruzione e la messa in funzione tecnica del Centro, infatti, sono avvenuti entro i termini economici e temporali programmati. Cosa più unica che rara di questi tempi.
A questo primo bel risultato è però seguito un periodo più incerto, in cui la pubblicizzazione delle possibilità del centro e la tessitura di rapporti ed alleanze è avanzata poco. Non è difficile capire come a queste incertezze abbia contribuito il passaggio del Centro da ATreP, smantellata, all’Azienda Sanitaria, con le conseguenti incomprensioni e magari giochi di potere. Ora però la situazione è definita e i compiti anche: la Protonterapia è una sfida, si giochi bene per vincerla fino in fondo.
Che cos’è e come funziona
Approvata dall’U.S Food and Drug Administration, ente governativo statunitense garante della sicurezza dei cibi e dei farmaci posti sul mercato, la protonterapia è, dal 1988, un trattamento clinico riconosciuto a livello mondiale.
Appartenente alla stessa famiglia della radioterapia convenzionale dove si utilizza una radiazione ad alta energia per colpire le cellule tumorali, questa terapia sfrutta i protoni, ovvero i nuclei dell’atomo di idrogeno. Considerati particelle pesanti, i protoni, attraverso un ciclotrone, vengono accelerati fino al 60 per cento della velocità della luce, proiettati in un fascio e “sparati” al centro del tumore.
Quando i protoni raggiungono il nucleo della cellula tumorale, trasferiscono la loro energia agli elettroni di quest’ultima, causando una serie di eventi (di ionizzazione) che danneggiano il DNA, inducendo così la loro distruzione o interferendo con la loro capacità di proliferare. Le cellule cancerose risultano infatti particolarmente vulnerabili agli attacchi portati al DNA, in quanto presentano un alto tasso di divisione e una ridotta capacità di riparare il DNA danneggiato.
I fasci costituiti da protoni presentano un massimo di energia (detto picco di Bragg) lungo il loro percorso che può essere settato in modo tale che corrisponda esattamente al luogo dove è presente il tumore. Immediatamente dopo questo picco, l’energia tende a zero, riducendo così al minimo l’esposizione alla radiazione dei tessuti sani circostanti.