Disastro, da Roma a Trento
"Sto vedendo un partito che voi umani non potreste nemmeno immaginare”, così Jena su La Stampa del 16 aprile. E ancora non si era concretizzato il suicidio collettivo del PD in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica. Ancora una volta “il maggior partito della sinistra” ha dimostrato di essere frammentato, inconcludente e quasi desideroso di salvare l’avversario, proponendo la magia delle “larghe intese”. Prima D’Alema poi Napolitano: due comunisti veri che, in fin dei conti, hanno fastidio per il popolo e per dargli voce attraverso le elezioni, preferendo soluzioni di vertice, accordi tra leader, governi tecnici, minestroni indigeribili. Tutto in nome della salvezza del paese. La riconferma di Napolitano ne è l’esempio più lampante. Vince Berlusconi, viene nuovamente pugnalato Prodi, muore il PD. Bersani (una brava persona ma sarebbe inutile soffermarsi sulle sue qualità o i suoi demeriti) ha condotto il partito alla disfatta. Troppo tardi si è fatto da parte, quando il disastro era compiuto. Puntare su Marini significava approvare il tentativo di un governo col PdL. In una notte si cambia completamente strategia, tirando in ballo Prodi che avrebbe significato (forse) la rottura definitiva con Berlusconi. Mai si è pensato di convergere su Rodotà, oppure proporre ai 5 Stelle una mediazione su Zagrebelsky. Sia detto per inciso: Grillo che presenta Rodotà come il nuovo (l’insigne giurista ha alle spalle 4 legislature, è stato parlamentare europeo, ha sempre frequentato i partiti e i palazzi, è stato insultato dallo stesso ex comico genovese, sta per compiere 80 anni) è ridicolo, come i cori inneggianti a Rodotà come esponente della “società civile”. Impallinato Prodi, con il partito liquefatto, Bersani si dimette e implora Napolitano di restare. Re Giorgio ci mette una mattina per cambiare idea e compie il “generoso atto di responsabilità” di rimanere. Perché tanta fretta? Non poteva aspettare due giorni? In Parlamento la convergenza si poteva ancora trovare: in fondo Scalfaro venne eletto al 16° scrutinio. Napolitano ha colto la palla al balzo e con molta soddisfazione ha accettato di rimanere, illudendosi di essere indispensabile. Corriamo davvero il rischio di vedere Berlusconi presidente della Repubblica, con un Giorgio II che non reggerà altri 7 anni. La sua scelta di restare avvalora l’idea che ci fosse un piano per continuare in qualche modo l’esperienza del governo Monti. Nasce così il governo Letta, che presenta sicuramente elementi positivi (più donne, ministri giovani, una compagine sobria) e che gode di buona popolarità; ma è un governo neodemocristiano che per ora verrà sostenuto dal PD e da un Berlusconi che si prepara a presiedere la convenzione per la riforma istituzionale. È lui il vero vincitore. Una vittoria di lungo periodo. Forse un qualche tipo di accordo con la destra era inevitabile, ma non a queste condizioni di capitolazione. E nei fatti la sinistra va all’opposizione, e rischia di restarci a lungo. Il PD ha superato in negativo ogni previsione: una burocrazia divisa sui programmi, incapace pure nella tattica parlamentare; vuoto di contenuti e dilaniato dalle correnti, succube di immortali “mammasantissima” pronti a pugnalarsi alle spalle. L’esito è quello, gravissimo, di aver sciupato energie, consensi, competenze e idealità di elettori e dirigenti, ma soprattutto di aver salvato troppe volte il berlusconismo. Dalle macerie del partito emerge Matteo Renzi. Sarà lui l’ancora di salvezza? Il sindaco di Firenze aveva ragione sullo stato marcio del partito, ma anche lui deve stare attento a non cadere in vecchi e oggi impopolari tatticismi: il cambiamento travolgerebbe anche lui. In mezzo a questo caos, simboleggiato dagli spari presso palazzo Chigi, attendiamo di sapere come Letta troverà in concreto la “quadra” programmatica fra legge elettorale, conflitto d’interessi, IMU, patrimoniale, evasione fiscale, politica economica, politica estera, politiche sociali, divario ricchi/poveri, diritti civili, immigrazione, ambiente, giustizia e processi di Berlusconi (che in realtà è il più arduo degli ostacoli). Contenuti mai esistiti nel dibattito del PD trentino. Tranne alcune meritorie iniziative di Luca Zeni, si è parlato solo di primarie, di tenuta della coalizione e infine del ritorno di Pacher. Che finalmente ha detto che la scelta di non candidarsi alla presidenza non è dettata dalla salute ma da “motivazioni politiche”, spiegate poi dal fedelissimo sindaco di Trento Andreatta: “La questione verte sul giudizio di questi 15 anni di governo”. Proprio questo è il punto: proseguire pedissequamente gli anni di Dellai (ecco la “coalizione”: il solito gruppo di potere e i soliti amici) oppure discutere possibili cambiamenti (le primarie sono l’unico modo per aprire la politica ai contenuti)? Il PD trentino discuterà di cooperazione, di speculazioni edilizie, di tagli indiscriminati e di spese folli, di debito pubblico provinciale e di struttura burocratica svuotata o asservita… insomma di futuro del Trentino? Ne dubitiamo. ?