Cronologia di un disastro
Tutto è cominciato nell’ottobre scorso, a un anno esatto dalle elezioni provinciali, quando Alberto Pacher annunciava in una lettera aperta la sua decisione di lasciare la politica. Le motivazioni addotte riguardavano soprattutto il livello nazionale del Partito Democratico e la strategia del segretario Bersani che avrebbe contraddetto la “vocazione maggioritaria” del partito e la sua capacità di parlare al paese proponendo soluzioni nuove e pure strumenti nuovi, come per esempio le primarie. Riguardo al piano locale, Pacher balbettava qualche sillaba: tra le righe si coglieva il fastidio per le critiche interne e per un PD troppo litigioso.
Contenuti concreti? Discussione sulle scelte pratiche? Sui miliardi spesi o stanziati dalla Giunta? Qualche giudizio sui 15 anni di Dellai? Nulla di tutto questo. Puro politichese che diede adito a ulteriori speculazioni, coinvolgendo pure delicati aspetti della vita personale dell’ex sindaco di Trento.
Al di là dei titoloni dei giornali, la notizia non scosse tanto il PD trentino: Pacher si ritira? Avanti un altro, che sceglieremo con le primarie. Furono invece le altre forze politiche, a cominciare dall’UPT, che stigmatizzarono il presunto atteggiamento liquidatorio riservato al “generoso” Alberto.
Intanto il PD trentino seguiva la corsa verso il baratro del partito nazionale. La gestione disastrosa delle candidature, in particolare al Senato, con il cedimento ad ogni richiesta della “coalizione” (parola magica per definire l’attuale inamovibile blocco di potere); il progressivo deterioramento del clima interno con il fuoco di fila contro Luca Zeni e Donata Borgonovo Re, rei di voler partecipare alle fantomatiche primarie; la prepotente voce della burocrazia di partito, pronta a tagliare le gambe a qualsiasi voce alternativa; il ridicolo corteggiamento a Pacher, reiterato più volte in maniera sempre più oscura, indecorosa e stucchevole: questo elenco è solo un assaggio delle prodezze politiche di una dirigenza, trasformatasi nella coorte di Ponzio Pilato, pronta a qualsiasi giravolta pur di rimanere a galla. Diarchie inconcludenti, fughe e assenze precipitose, mediazioni su mediazioni, assemblee estenuanti, e infine, sempre, la decisione di non decidere, di rimandare, di “sentire la coalizione” da cui prendere ordini: a questo si è ridotto il primo partito della provincia.
Orfano del “nostro leader” Dellai, il Partito Democratico si è dimostrato inconsistente, veramente inutile per la comunità e per i suoi elettori. Così, mentre il PD nazionale si suicidava in aprile, quello trentino tentava di “crepare di maggio”, quando “ci vuole tanto, troppo coraggio”.
Alla fine, ancora una volta, è stato l’onorevole Dellai a dettare la linea,attaccando il consigliere Mattia Civico che aveva fatto qualche osservazione su aspetti concreti (dalle grandi opere al debito provinciale), dando l’interpretazione autentica della scelta di Pacher (“Il problema è il bilancio di questi 15 anni e non cedere alle derive grilline”), fino a spingerlo ad incredibili e non si sa quanto forzati tentennamenti sulla propria scelta.
Alla fine la sorpresa, con il “compagno” Panizza a mettersi di traverso: con o senza Pacher, il PATT non cede sulle primarie di coalizione, a cui il PD avrebbe allegramente rinunciato in presenza di un ripensamento del presidente facente funzioni.
Così Pacher si ritira e il partito finalmente decide, con un voto a strettissima maggioranza dell’assemblea: si andrà ad una conta interna, del tutto burocratica e chiusa, per designare il proprio candidato unico, che sarà probabilmente l’assessore Olivi.
La base? I circoli? L’apertura alla società civile? Dimenticati, tanto comandano lorsignori.
In questo modo, con tutta probabilità, il Partito Democratico non avrà il candidato presidente. Ma questo è un particolare completamente insignificante, perché ormai il giudizio politico è irrevocabile: il PD è sempre gregario, in quanto strutturalmente incapace di assumere autentiche responsabilità di governo e meno che mai di imprimere alcuna svolta. Anzi, non ci pensa nemmeno: per la nomenclatura sono gli organigrammi (dettaglio secondario per i cittadini) ad essere il faro di ogni pensiero, di ogni azione.
Gli elettori hanno dimostrato, vedi i recentissimi risultati elettorali, nel resto dell’Italia come a Pergine, di essere sia apertissimi al nuovo, sia in parte significativa ancora attaccati al partito, cosa che però non è detto si ripeta in ottobre. Il fallimento cronico della sinistra è infatti ora conclamato e non si intravedono possibilità di cambiamento in tempi brevi.