Gli stranieri trentini fra contro-esodo e disperazione
La maggior parte della manodopera del comparto edilizia sono stranieri, residenti in Trentino da 15 -20 anni, che ora tornano ad annegare nel mare magnum della crisi.
Sono in Trentino dal 1992, alcuni dal 1989, i loro figli sono nati in Trentino e frequentano scuole trentine, qualcuno è riuscito ad avere una casa ITEA, un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Sono riusciti ad amalgamarsi in una comunità che ha metabolizzato l’accoglienza, la convivenza, le diversità di lingua, di religione, in un graduale percorso multiculturale non facile per nessuno, ma probabilmente più inclusivo e meno problematico che altrove in Italia. Nel giro di 4 anni è svanito tutto, polverizzato. Un percorso di stabilizzazione del lavoro, della vita, spesso duro, costato anche umiliazioni, è ora rimesso in discussione. Perchè l’occupazione degli immigrati maschi in Trentino si concentra principalmente nell’edilizia e nel suoindotto, l’estrattivo, l’impiantistica i trasporti. Settori in crisi verticali: nel 2012 oltre 3200 delle 7000 imprese edili trentine hanno chiuso i battenti (vedi QT di aprile 2013); nel primo trimestre 2013 un ulteriore crollo, con 527.744 ore di cassa integrazione ordinaria, il 242% in più rispetto al 2012. Gran parte dei lavoratori stranieri, soprattutto quelli di lungo periodo, aveva iniziato a patirla da subito la crisi, parliamo del 2008-2009; lo conferma il rapporto del Cinformi, l’ultimo anno di crescita considerevole della popolazione immigrata in Trentino era stato il 2009, con +8,1 poi la situazione è cambiata. Il rapporto annuale della Fondazione ISMU rileva che nel 2012, per la prima volta, la crescita della presenza straniera sul territorio nazionale è sostanzialmente pari a zero, mentre le statistiche ISTAT parlano di 800.000 immigrati “scomparsi”, tra il 2010 e il 2011, tornati a casa o emigrati altrove. In Trentino non si può ancora parlare di contro-etsodo, l’integrazione nel nostro territorio ha avuto un supporto sia strutturale, da parte di organismi ad hoc come il Cinformi, sia culturale, poiché il Trentino è da sempre terra di mutualità, associazionismo e cooperazione. Ma ora qualche lavoratore straniero inizia a chiedere il rimpatrio assistito, con percentuali ancora minime, ma diverse rispetto al passato. Nel 2012 al Cinformi sono state inoltrate 17 domande, contro le 2-3 degli anni precedenti. Si tratta degli ultimi arrivati e principalmente senza famiglia al seguito. Il rimpatrio assistito prevede che lo Stato, attraverso le Regioni, rimborsi il viaggio ed elargisca 1.500 euro per le prime spese. È un sussidio intelligente, che sgrava con un minimo di umanità l’Italia da presenze che non può mantenere. Ma è anche un provvedimento poco usato: per chi è venuto qui pagandosi il viaggio attraverso l’autotassazione di tutta la famiglia allargata quando non dell’intero villaggio, che sul giovane emigrante ha pesantemente investito, tornare indietro, sconfitto, è impossibile, inaccettabile. Piuttosto si emigra ancora, in altri paesi dove la crisi si fa meno sentire. Per chi poi ha messo radici in Trentino, si è inserito, ha i figli che vanno a scuola qui, andar via sarebbe una tragedia: fino a un certo punto interviene il welfare; finiti i sussidi INPS, c’è il reddito di garanzia, che ha due soggetti di erogazione diversi, quello automatico della Provincia, che dura solo quattro mesi rinnovabili e non viene rinnovato per più di tre volte in due anni, e i sussidi dei servizi sociali (Comuni, Comunità di Valle), che però hanno budget limitati e la coperta è sempre più corta. Scatta allora, per chi non è isolato, l’aiuto della rete parentale o amicale, la solidarietà interna alle comunità di immigrati con aiuti economici e qualche lavoretto in nero, analogamente a quanto succede ai lavoratori trentini. Ma per chi non ha comunità di riferimento, è buio pesto.
Sguardi pieni di paura
Una cinquantina di questi lavoratori stranieri li abbiamo incontrati nella sede del sindacato Cobas a Rovereto. La maggior parte chiede di mantenere l’anonimato. In quella sala, che pur non è piccola, siamo ammassati come sardine ad ascoltare il lessico della disperazione. “Stiamo perdendo la casa, a qualcuno hanno staccato la luce, abbiamo famiglia, bambini e i sussidi sono finiti” – racconta un egiziano dai grandi occhi sgranati. “Io non sono abituato ad andare alla Caritas a prendere il pacco, sono abituato a lavorare, noi vogliamo lavorare,non vogliamo la carità, i nostri figli non vogliono la carità” – dice Kaleb gesticolando. “Il mio bambino mi chiede 5 euro la mattina per la mensa scolastica ed io non ho nemmeno quelli. Non so come dire che non ne ho più, ho solo voglia di piangere, ma aspetto che entri in classe, non voglio che lui veda” – continua un pakistano sui 40 anni, seduto accanto a lui. Il brusio aumenta, tutti vogliono parlare. Un marocchino fa loro cenno di sedersi e nella loro lingua li invita a parlare uno alla volta, lasciando che lui faccia una premessa per spiegare la loro condizione: “Siamo in Trentino da molti anni, ci siamo indebitati fino agli occhi per arrivare qui, abbiamo pagato i debiti lavorando, abbiamo versato i contributi, imparato un mestiere, cresciuto i nostri figli qui. Parliamo la vostra lingua ed ora non siamo più né dei trentini, né del Marocco, della Tunisia, dell’Egitto. Non siamo più nulla, siano solo un peso da scaricare. Dopo vent’anni non possiamo tornare da dove siamo venuti, abbiamo costruito il nostro futuro qui. Da noi ci sono state guerre civili, rivoluzioni, forse è peggio di prima”. Chourabi, uno dei più anziani racconta: “Ne ho passate di tutti i colori, all’inizio non è stato facile, ho cambiato diversi lavori e per avere il permesso di lavoro abbiamo pagato i contributi a metà io e il mio datore di lavoro; e poi la residenza, la carta di soggiorno, la casa ITEA. Ora rischio di perdere tutto, sono indietro con i pagamenti dell’affitto, ho portato le bollette, guardate, sono qua. Faccio qualsiasi cosa, qualsiasi lavoro. Altrimenti ditemi voi, cosa posso fare?”. “Se ci restituissero almeno i contributi versati, qualcuno di noi potrebbe anche rifarsi una vita tornando a casa, magari con una piccola attività di commercio o di artigianato nel mio paese c’è un poco di ripresa economica” - racconta un giovane marocchino.
I rischi
“Fino al 2002 si poteva chiedere il recupero dei contributi versati per i paesi non convenzionati con il sistema previdenziale italiano, per quelli convenzionati gli anni di pensione maturati si potevano sommare ai contributi versati nel proprio paese. Ma la Bossi-Fini ha cancellato questa norma" - spiega Antonio Rapanà, già responsabile per la CGIL per i lavoratori immigrati. Non fa più parte del sindacato da sei anni, ma sono ancora moltissimi i lavoratori stranieri a rivolgersi a lui. “La trafila – continua - è ormai consolidata, chi perde il lavoro e deve rinnovare il permesso, ottiene il cosiddetto ‘permesso per attesa occupazione’ per un anno, ma trascorso questo periodo deve avere un contratto di lavoro”.
E se il lavoro non lo trova?
“La Questura, da quando è iniziata la crisi, è flessibile, molti lavoratori di lungo periodo hanno ormai la residenza da oltre 5 anni, hanno avuto per molto tempo un reddito minimo di 5.800 euro all’anno, la fedina penale in ordine e quindi hanno attenuto il permesso di soggiorno di lungo periodo (vecchia carta di soggiorno), che è a tempo indeterminato. Ma anche questo diritto si può perdere, commettendo reati di micro criminalità (spaccio, ricettazione, rapina). Con i tempi che corrono c’è anche chi scivola in questo cono d’ombra, bisogna pur mangiare, e allora per la Questura scatta il decreto di espulsione".