Centro sociale Bruno: una risorsa per il territorio?
A sei anni dalla prima occupazione, attraverso un’intervista cerchiamo di fare un bilancio sul percorso del centro sociale. Incominciando da alcuni luoghi comuni che lo accompagnano...
Lo scorso 10 ottobre, la scommessa di un Centro Sociale Occupato nel bel mezzo di Trento ha festeggiato il suo compleanno. Sono infatti passati sei anni dalla prima occupazione di uno spazio inutilizzato da parte di quello che, ai tempi, era un collettivo con alle spalle tre anni di esperienza nella Tana di Via Roma. Scegliendo l’orso che scorazzando sui monti aveva troppo infastidito ed era stato spietatamente abbattuto come simbolo di libertà e alterità incompresa, nel 2006 il collettivo si era stabilito nell’area ex Zuffo. Passando per la palazzina Liberty di Piazza Dante ed il vecchio studentato Mayer, si è arrivati, nel 2007, all’occupazione della vecchia Dogana di Trento. Il luogo, fra tutti, provvisto di maggior potenziale, nonché quello dove l’esperienza del centro sociale ha trovato la maggiore stabilità, che oggi sembra messa in discussione dal passaggio di proprietà dell’immobile dalla Provincia alla Cooperazione. É una realtà, quella del Bruno, molto significativa per una città di dimensioni modeste come Trento, per cui costituisce un tema sempre piuttosto caldo, del quale è facile mettersi a discutere con toni accesi. Proprio per questo, le discussioni sembrano produrre più luoghi comuni che non analisi dei limiti e dei benefici che il Bruno apporta alla città. Non si sentono più attacchi ai singoli, a quei Donatello Baldo e Federico Zappini, che qualche anno fa concentravano su di sé molta dell’attenzione mediatica e sono oggi in altre faccende affaccendati. Ma i luoghi comuni sono rimasti. Basta scorrere su internet i commenti dei lettori de “L’Adige”. Si va da violenti ad alleati di Dellai, da gestori di un locale a figli di papà. É proprio partendo da questi luoghi comuni, letti e sentiti tante volte, e dalle risposte di alcuni degli occupanti, che QT ha provato, invece, ad avvicinarsi ad un’analisi.
Perditempo e figli di papà sono di certo tra le definizioni più sentite.
“Figli di papà è quella che più ci offende: qui, la composizione sociale è quella dei precari. Persone che sentono la crisi come tutti gli altri. Che prima potevano tranquillamente studiare ed occuparsi delle attività del Centro Sociale, ed ora devono anche lavorare. L’altra ci interessa di meno: se occuparsi di tutto questo è perdere tempo...”
Accuse più circostanziate sono, invece, perlopiù riferite ad un rapporto con la Provincia non adatto ad un movimento antagonista. Lo si diceva quando Donatello Baldo parlava di “dialogo con la proprietà”, lo si dice adesso.
“Se in passato ci sono stati accordi con la Provincia, cosa improbabile, non erano decisioni dell’assemblea del Bruno. Adesso non c’è niente di tutto ciò. Del resto, benché con Baldo i rapporti siano ora conflittuali, sulla questione del dialogo siamo d’accordo. Siamo disponibili ad interloquire, che non vuol dire chinare la testa, ma dire la nostra. Siamo anche disposti a pagare un affitto che sia calmierato, in riconoscimento del valore sociale di quello che facciamo. In fondo, abbiamo occupato uno spazio inutilizzato e gli abbiamo ridato vita. In tutto questo ci manca, però, l’interlocutore.”
Ma chi vi paga le bollette, le iniziative? E dove finiscono i soldi che fate, dato che non pagate le tasse?
“Le bollette non le abbiamo mai pagate, e difatti siamo senza corrente. E le iniziative ce le organizziamo da soli. Sulle tasse è vero, alcune non le paghiamo: ad esempio la Siae. Ma è una scelta politica, preferiamo dare i soldi ai gruppi che suonano qui. Una tassa addizionale da pagare è proprio l’energia: abbiamo un generatore a gasolio, la luce per questa chiacchierata ci costa 20 €.
Pagare le bollette ci converrebbe, ma Dolomiti Energia non ci pensa nemmeno a riallacciarci. I soldi? Al Bruno ogni anno girano circa 20.000 €, di cui 19.000 sono spese, soprattutto organizzative e legali, per la mobilitazione politica. Ciò che restava, l’abbiamo investito nel generatore”.
Qualcuno vi accusa di essere solo un locale, che per di più disturba.
“Con il vicinato abbiamo rapporti tranquilli. La Circoscrizione ci ha riconosciuto un ruolo di importanza sociale all’interno del quartiere, e i vicini hanno i nostri numeri. Se qualche sera disturbiamo, chiamano noi, non i carabinieri. All’accusa di essere solo locali sono esposti molti Centri Sociali. È fisiologico, ed alcune volte è un’accusa giusta. Noi rispondiamo semplicemente con l’elenco delle nostre iniziative: la ciclofficina, la palestra popolare con corsi di yoga, l’Enolibreria da Jurka, il Gruppo di Acquisto Popolare e le colazioni del sabato, il sostegno al progetto dell’orto sociale di San Bartolameo, il teatro, Union Radio, Cinemafutura e altre iniziative che partiranno a gennaio, come il tango. Al massimo il problema è nostro, sono troppe. Anche perchè poi, c’è la cosa più importante: le assemblee politiche e la mobilitazione, lo scendere in piazza. Insomma, solo un locale? Ci vediamo sabato a Riva del Garda, a contestare Monti...”
Ma non c’è incoerenza tra questi rapporti di buon vicinato, di dialogo con una città democristiana come Trento, e l’antagonismo politico?
“Nessuna contraddizione. Promuovere e sostenere attività è un altro modo di presentare un’alternativa sociale all’interno della città. E poi, non è che tutti i trentini siano d’accordo con il principato vescovile in cui viviamo.”
E le accuse di essere dei violenti?
“C’è molta banalità nell’affrontare la questione violenza/non violenza dall’inizio del secolo, dal G8 di Genova e l’invenzione mediatica del Black Bloc. Si accetta qualsiasi uso della forza da parte della polizia, ultimamente abbiamo visto menare a sangue dei quindicenni,e si urla allo scandalo se un corteo insulta un poliziotto. Per noi ci sono dei rapporti di forza da sovvertire...”
Per concludere, quali sono le prospettive riguardo al possibile sgombero?
“Siamo al centro di una grossa speculazione edilizia, che anche QT (“Dellai: la faccia tosta” del 1 ottobre 2011) ci ha aiutato a decifrare. Sembrava certo che saremmo stati fuori entro fine anno, ora il tutto sembra slittare. Noi, comunque, andiamo avanti con le nostre attività.”
È stata, quella con alcuni ragazzi del collettivo, una discussione non banale, da cui emerge una complessità molto maggiore rispetto all’opinione che del centro sociale hanno in molti, e non solo a destra o tra i moderati. Sono molte le cose da riconoscere. Innanzitutto, un percorso lungo sei anni e, all’interno di questo, una maturazione che ha visto una perdita di protagonismo dei singoli che dà maggior senso alla pretesa di agire collettivo che ha ogni movimento sociale.
C’è anche una disponibilità al dialogo non subalterno con le istituzioni, necessario per continuare ad esistere ed operare, senza che ci si vergogni di dichiararlo. Questo, agli occhi di alcuni, costituisce un’ambiguità che fa perdere al Bruno la sua patente di antagonismo, o perlomeno lo esclude dalla definizione di centro sociale occupato. È qualcosa su cui si può discutere, ma che dovrebbe perlomeno essere messa in dubbio nel notare come, a Trento, l’iniziativa ed il supporto organizzativo dei membri del collettivo siano cruciali in tutte le principali mobilitazioni politiche, senza che ci sia la paura di prendere manganellate, ormai tristemente frequenti in troppe situazioni di piazza. C’è, infine, una molteplicità di iniziative che riesce difficile non considerare utili, in molti aspetti, per la città. Questo non vuol dire che tutto sia impeccabile. Si trovano, nel Centro Sociale, molti dei limiti tipici dei centri sociali italiani, soprattutto di quelli che fanno riferimento, nel Nord Est, alla galassia dei Disobbedienti. Ci sono poi limiti dipendenti dalla scarsità di forze, e quelli relativi al fatto che ogni pratica politica genera dubbi, problemi, e che chi la porta avanti farà, più o meno spesso, delle scelte sbagliate. Ma nessuna di queste ragioni sembra sufficiente per far considerare il Bruno un problema più di quanto non sia una risorsa.
Su questo dovrebbe ragionare anche la collettività. L’intenzione di permettere agli uffici della Cooperazione di ampliarsi non è di per sé qualcosa di sbagliato. Dietro alla sua crisi ed agli scandali ormai quotidiani, mensilmente denunciati da questo giornale, il mondo cooperativo rappresenta ancora una realtà socialmente ed economicamente fondamentale per il Trentino. Ma se questo avviene a spese di un’altra risorsa del territorio, bisognerebbe riflettere sulle possibili soluzioni. Proprio partendo dal riconoscimento di questa risorsa.