L’università si interroga
Dopo i conflitti con Dellai, il tema in università è diventato la distribuzione dei finanziamenti, con il pericolo di una lacerazione tra le facoltà scientifiche e quelle umanistiche.
Dopo il solito periodo di assopimento estivo, nelle ultime settimane il dibattito intorno alla nuova Università “provincializzata” ha ripreso vigore, a testimoniare il fatto che i lunghi mesi di gestazione e il frettoloso parto cesareo praticato dalla Provincia non sono arrivati neppure vicini a risolvere alcune questioni fondamentali che, infatti, oggi si trovano ancora sul tavolo.
I giochi, in realtà, sono per la maggior parte già conclusi: lo Statuto è quello che è, e il regolamento generale d’Ateneo (che definisce una serie di questioni pratiche importantissime) è stato approvato a settembre, sciogliendo ogni dubbio sulla configurazione dipartimentale della nuova Università di Trento: le facoltà di Sociologia, Economia, Giurisprudenza e Lettere si trasformano in altrettanti dipartimenti, mentre per quanto riguarda l’area tecnico-scientifica, se Scienze Cognitive rimane invariata, le facoltà di Scienze e Ingegneria si tramutano in cinque nuovi dipartimenti. Oltre a ciò il regolamento stabilisce date vicinissime per l’elezione del Rettore e dei nuovi presidenti di dipartimento (e quasi dappertutto, in special modo per il rettorato, ancora non si ha alcuna idea né delle candidature né dei programmi).
Purtroppo sembra ancora che sia chi detta i tempi sia chi i tempi li subisce, non siano affatto interessati nel favorire dibattiti aperti. Eppure ci troviamo di fronte ad alcune questioni fondamentali per capire in che direzione stia andando l’Ateneo.
Io pago
Innanzitutto c’è la questione dei soldi, ossia - burocraticamente parlando - dell’Atto di indirizzo. Da quasi vent’anni l’Ateneo riceve dei fondi aggiuntivi da parte della Provincia, regolarmente accompagnati da un documento, l’Atto di indirizzo appunto, che fornisce all’Università indicazioni generali su come questi soldi vadano spesi.
Inizialmente lo scopo di questi fondi era dare vita ad un circolo virtuoso che avrebbe permesso all’Ateneo trentino, nel giro di qualche anno, di accedere a maggiori fondi nazionali.
In realtà poi le cose sono andate diversamente sul piano nazionale, e questa sorta di fondo integrativo è diventato una voce essenziale del bilancio.
Ora, fintanto che i soldi messi dalla Provincia potevano essere considerati “extra” a tutti gli effetti, poco male, un ente pubblico suggeriva indicazioni strategiche (magari legate al territorio) per l’utilizzo del suo contributo. Ma oggi, che la fetta più grande degli oneri di finanziamento dell’Università è a carico della Provincia, si apre un problema: la Provincia, ente pagatore fondamentale, può imporre la destinazione di finanziamenti indispensabili senza che sia lesa l’autonomia sostanziale dell’Università?
Tenendo presente questa questione di fondo, vediamo come quest’anno è stato recepito l’Atto di indirizzo. Questa è stata la dinamica dei fatti: il rettore non ha aperto alcuna discussione in Senato, ha celermente comunicato in Provincia la presa d’atto del documento, e così in un rapido scambio di mail si è chiuso il tema dei finanziamenti per i prossimi tre anni.
In realtà l’Università non è stata estranea all’Atto d’indirizzo, pare infatti che prima che il documento arrivasse da piazza Dante, ne girassero tra i docenti delle bozze, e la carta intestata fosse appunto quella dell’Ateneo.
Alcuni ne deducono che una parte dell’Università sia stata in stretti rapporti con la Provincia, abbia contribuito a scrivere l’atto, ne abbia ricevuto i maggiori benefici. In buona sostanza, sembra che nell’Ateneo mamma Provincia abbia alcuni figli prediletti.
Chi è allora che da questa allocazione di fondi ha tratto vantaggio? E perché ancora una volta i presidi delle facoltà più bistrattate non hanno battuto ciglio, come quando qualche mese fa votarono uno statuto che i consigli di facoltà non volevano?
Rispondere alla prima domanda è semplice: follow the money.
A pochi progetti sono state destinate risorse ingentissime. Il che può essere anche condivisibile, gli investimenti forse è meglio concentrarli invece che disperderli in una pluralità di progetti, così destinati tutti ad arrancare. Il punto è che i progetti prescelti afferiscono tutti a dipartimenti scientifici, come ad esempio il CIBio (Center for Integrative Biology), il CIMeC (Centro interdipartimentale Mente/Cervello), il Cosbi (Centro di ricerca informatico-biomedica della Microsoft), senza dimenticare la ricerca aerospaziale...
Ricerca buona e ricerca cattiva
Le aree socio-economiche-umanistiche sono invece rimaste all’asciutto. É di fatto emersa una concezione dell’università come mero strumento della ricerca tecnico-scientifica, (molto) più delle altre ritenuta in grado di sviluppare l’economia e generare ricchezza.
Dellai infatti sembra avere una strategia precisa, che è emersa dai discorsi e dalle prese di posizione degli ultimi mesi: ci sono due ricerche, quella utile e quella superflua. La prima è quella che genera start up, trasferimento tecnologico nelle imprese, punti di Pil, occupazione; della seconda non parla e non si interessa.
Questa visione della ricerca risulta fortemente imperniata su un’idea economicista del sapere, e forse anche troppo semplificata (che più soldi in ricerca significhino in automatico più punti di Pil è un bell’atto di fede). Ma su questo ci sarà modo di discutere. Qui ne analizziamo una conseguenza più terra terra: la divisione tra ricerca utile e superflua fatalmente crea (o forse meglio, accentua) una frattura tra le aree scientifiche (la collina) e quelle umanistiche (la valle). E non ci sembra un bel risultato.
E così si rinfocola il conflitto valle/collina
Ma i presidi di valle, come mai non oppongono, così sembra, alcuna resistenza a questo schema in cui non sono minimamente contemplati? “Se il quieto vivere non è una risposta sufficiente - ci confida uno stimato professore che chiede di rimanere anonimo - allora basta osservare un pochino meglio e si scopre che alcuni, in realtà, non sono tornati a casa proprio a mani vuote: c’è chi ora ha buone quotazioni per la corsa a rettore, chi la segreteria di qualche manifestazione, chi qualche finanziamento ad hoc”.
Non sappiamo se queste siano solo malignità: di sicuro queste vicende non hanno portato serenità nel corpo docente.
Ma è davvero corretto interpretare in questo modo i rapporti all’interno dell’Ateneo? “Non stando a ciò che prospetta l’Atto di indirizzo, che in realtà si limita a destinare ingenti risorse a pochi settori molto delimitati, dimenticando altri importanti ambiti delle facoltà scientifiche - ci dice Claudio Migliaresi, direttore di dipartimento di Ingegneria dei Materiali e Tecnologia Industriale - Per questo il documento mi ha lasciato insoddisfatto, e trovo la concezione collina contro valle sbagliata e fuorviante”
“Mah - ribatte Paolo Collini, Preside di Economia e tra i candidati più forti per la carica di Rettore - forse in collina i finanziamenti sono arrivati solo per progetti specifici, ma qui in valle neppure quello. E la cosa mi sembra chiarisca bene quali siano le priorità della Provincia.”
Il conflitto che non disturba
Altra questione spinosa è quella di Sonia Bonfiglioli, nominata dalla Provincia nel cda dell’Ateneo, nonché amministratrice delegata della Bonfiglioli Riduttori spa.
Confidiamo, come alcuni professori con cui abbiamo parlato, che Bonfiglioli sia una stimabile e corretta professionista, e che si guarderà bene dal favorire in qualsiasi modo il gruppo che lei dirige. Sta di fatto che la Bonfiglioli Riduttori riceve dalla Pat diversi milioni per insediarsi nel polo della Meccatronica di Rovereto, in cui, sempre secondo la Pat e secondo Paolo Mazzalai (Presidente di Confindustria Trento) dovrebbe insediarsi un dipartimento di Ingegneria. Ma non secondo il rettore, che sull’”Adige” di martedì 2 ottobre si scaglia contro il progetto: “L’ateneo non è un’impresa”.
Ora, se immettere nel cda dell’Università un imprenditore può essere un significativo segnale di apertura, metterne uno che ha propri, specifici interessi proprio su una questione così controversa, che riguarda i rapporti tra l’Ateneo e la sua impresa, significa solo creare un colossale conflitto d’interessi.
Anche perchè, ricordiamolo, in fase di redazione dello statuto si volle fortemente il cda privo di docenti interni all’Ateneo perché, si diceva, portatori d’interessi particolari (offendendo così il contributo che molti docenti hanno senza dubbio dato al raggiungimento dei successi dell’Università di Trento), e ora invece non si ravvisa alcun problema nell’inserirvi un imprenditore finanziato dalla Provincia per gestire un’attività in stretto e contrastato rapporto con lo stesso Ateneo che dovrebbe guidare.
Di fronte a questa serie di problemi si troverà il prossimo Rettore. Innanzitutto: come interpreterà il suo ruolo? Come Davide Bassi, procederà testardo per la sua strada, inamovibile una volta convinto di fare il bene dell’Ateneo, o si dimostrerà più disponibile a recepire anche le istanze della parte di Università non d’accordo con lui?
“Il prossimo Rettore, più che di valle o di collina sarà qualcuno in grado di riaffermare con forza l’autonomia che ora vediamo un po’ in pericolo” prevede Migliaresi.
“Quello che mi auguro - ci dice Collini - è che sia in grado di ascoltare le diverse voci dell’Università e di difendere tutte le anime dell’Ateneo. Quello che non ci serve è proprio una figura interessata soltanto alle discipline da cui arriva. E deve essere una figura in grado di parlare con la Provincia, che sappia costruire un rapporto senza litigarci o dire sempre di sì”.