Professori in trincea
Sul nuovo statuto il contrasto durissimo fra un’autoritaria Provincia accentratrice e un corpo docente compattato a difesa dell’autonomia dell’Ateneo.
Autoreferenziali, una casta arroccata in difesa di vetusti privilegi, fuori dal mondo che cambia.
Così è stata descritta la comunità di docenti dell’università di Trento: come una nobiltà reazionaria più che come un gruppo di colleghi che insegnano e ricercano liberamente.
Chi propone questa visione delle cose, e perché? Chi vuol convincere tutti che il vero potere da cui si deve guardare la nuova università trentina, se vuole prosperare, è rappresentato da una cricca di professori, anzi, visto che sono la larga maggioranza, la casta dei proessori, che antepone il proprio interesse particolare a quello dell’Ateneo?
A battere su questo tasto è innanzitutto il presidente della Provincia Lorenzo Dellai, in questi ultimi tempi particolarmente insofferente di ogni critica e opposizione (in proposito vedi anche l’editoriale a pag. 3) e qui impegnato nell’inusitato ruolo di sfasciacarrozze.
Un atteggiamento irresponsabile, in stile “Libero”, o Gelmini, qui reso più grave dalla relativa ristrettezza dell’ambiente, dalla contiguità delle persone: le frasi sprezzanti del vicino lasciano molto più il segno che non quelle di un Belpietro.
“È dall’alto che viene l’esempio” dice Napolitano. E così anche questa volta: le dure e ingenerose tesi dellaiane hanno sdoganato la critica puntuta al corpo docente trentino, magari ad opera di docenti che si distinguono per numero e ricchezza di consulenze ed incarichi provinciali. Si rischia la frattura non solo tra Ateneo e Provincia, ma anche tra i pochi docenti filodellaiani e la maggioranza di “indipendentisti”.
Di fatto la questione universitaria ruota attorno a due posizioni che si scontrano in quanto rappresentano due diverse autonomie, dell’Università e della Provincia. Due autonomie che dovrebbero essere simbiotiche, una a rafforzare l’altra: la Provincia che proprio in quanto autonoma sostiene un’università più forte e moderna che nel resto d’Italia; l’Ateneo che dallo stretto ma libero rapporto con una ben strutturata realtà locale ricava non solo più soldi, ma più stimoli, più concretezza e anche più disciplina. Invece l’invasività della Provincia, che fin dall’anno scorso ha messo i piedi nel piatto elaborando proposte di governance assolutiste, unite a una serie di preoccupanti dichiarazioni di Dellai, hanno provocato nel mondo accademico il timore di consegnarsi a mani legate al predominio della politica. Per docenti che da decenni hanno scelto di venire a vivere a Trento, che all’università trentina hanno legato carriera e futuro, è stato un autentico shock.
L’oggetto del contendere
Oggetto del contendere questa volta è stata la prima bozza del nuovo statuto, presentata il 30 dicembre dalla commissione (a stragrande maggioranza provinciale, e già questo era stato uno strappo) incaricata di redigerlo.
Il rettore Davide Bassi e il presidente Ignazio Cipolletta si sono affrettati a definire questa versione una bozza-zero, e in cerca di consenso hanno sottolineato le ampie possibilità di modifica al testo. Ottenendo l’effetto contrario. Quando in politica si dice che nulla è stato ancora deciso, vuol dire l’esatto contrario: noi abbiamo deciso, però vi diamo il tempo per rassegnarvi.
Così la discussione intorno alla bozza è subito entrata nel vivo ed ha reso palese la spaccatura sull’impostazione da dare all’Ateneo post-provincializzazione. Con il risultato di un inusitato compattarsi di buona parte del corpo accademico in contrapposizione ai vertici dell’Ateneo (Bassi e Cipolletta) visti come funzionali alle intenzioni egemoniche della Provincia.
In verità la reazione dei docenti all’invadenza di piazza Dante è stata incredibilmente lenta, tanto che forse le azioni finalmente decise nelle ultime settimane arrivano allo scadere del tempo utile, a norma d’attuazione già approvata e ad un passo dal commissariamento da parte della Provincia.
In genere i professori hanno un modo un po’ strano di comunicare. A volte amano non essere chiari di proposito e soprattutto quando osservati in branchi nel loro habitat esibiscono comportamenti bizzarri riconducibili alla complicata struttura di rapporti sociali e clan familiari.
Altre volte, però, sanno essere molto chiari. Sono stati molto chiari quando hanno apertamente tolto al Rettore la fiducia, raccogliendo le adesioni alla petizione “dei 427” (dal numero, molto elevato, degli aderenti) promossa dal prof. Zambelli di Economia. Bassi, infatti, capì benissimo (“È chiaramente una mozione di sfiducia nei miei confronti” - commentò), ma decise di andare avanti imperterrito.
E ancora prima il fortissimo gesto del prof. Giovanni Pascuzzi, ordinario a Giurisprudenza e prorettore vicario fino alle sue dimissioni il 7 ottobre proprio in polemica con il Rettore per la scelta - secondo lui inadatta ed incostituzionale - delle persone nominate nella commissione statutaria: nessun giurista e tutte tranne una esterne all’Ateneo. Un chiarissimo, finanche insultante segnale della Provincia: di voi cialtroni non ci si può fidare, adesso ci pensiamo noi a mettervi a posto.
La mobilitazione
Questi i segni evidenti dello scollamento avvenuto, prima ancora che tra Provincia e università, tra Rettore e docenti, segni che si è voluto ignorare ma che sono montati e cresciuti per esprimersi nella pioggia di critiche piovute quando infine la bozza dello Statuto è approdata in assemblea d’Ateneo il 19 gennaio.
Nei giorni precedenti due facoltà avevano deliberato, dando mandato ai rispettivi presidi di non votare uno statuto con tali contenuti. Altre ancora avevano espresso forti dubbi, e ben pochi professori si erano alzati nelle proprie facoltà per parlare a favore della bozza.
E così si è arrivati all’assemblea del 19, con una mobilitazione dei docenti partita tardi, ma partita forte. In realtà l’origine dei problemi, l’ambiguità sulla governance dell’Ateneo, non sta nella bozza ma più a monte, nella norma d’attuazione, approvata tra insufficienti proteste la scorsa primavera; per parte sua la commissione statuto ha avuto - come sarcasticamente affermato in assemblea - il merito di svelarne le magagne riuscendo a fare ancora peggio: dove la norma non entrava nel dettaglio e lasciava spazi di manovra, la bozza specificava e chiudeva ogni spiraglio.
Il prof. Luca Nogler, preside di Giurisprudenza, in un pacatissimo e gelido intervento portava a nome della sua facoltà una serie di obiezioni formali e sostanziali che ridicolizzavano una commissione statutaria a digiuno di conoscenze giuridiche, riproponendo con un elegante “Noi ve l’avevamo detto” la critica che si mosse al Rettore quanto scelse di non affiancarsi tecnici esperti in giurisprudenza.
Tra gli altri spiccava poi l’intervento del prof. Gregorio Arena, ordinario di Diritto amministrativo, che sottolineava come la bozza si basasse su una preconcetta (e offensiva) diffidenza per i professori, ritenuti in malafede e in contrasto con gli interessi dell’Ateneo.
Arena, portavoce del movimento seguito all’assemblea dei 427 e sostenuto da quasi tutti i direttori di dipartimento, era anche incaricato di proporre quattro “modifiche irrinunciabili” (da notarsi la durezza dei termini), come sintesi giuridica ed operativa della posizione di molti.
I quattro punti, scarni e minimali, sono tutti incentrati sulla conservazione dell’autonomia da parte dell’accademia, in contrasto con l’invadenza dell’autonomia provinciale, ossia della parte politica, prevista a piene mani dalla bozza.
Vediamoli in breve.
1. Le modalità di modifica dello Statuto. La prima “modifica irrinunciabile” le riporta in capo all’organo che più rappresenta il corpo docente, ossia il Senato accademico, mentre la bozza le fa dipendere da un organismo in cui la maggioranza è di nomina provinciale.
2. L’elezione del Rettore. La bozza prevede sì l’elezione da parte del Senato accademico, ma su una rosa di nominativi approvati da un Comitato a fortissima prevalenza provinciale che vaglia le candidature entrando nel merito anche dei contenuti del programma. È chiaro, scrive Arena, come “questo filtro possa diventare un modo per eliminare le candidature sgradite” al potere politico. La seconda “modifica irrinunciabile” riporta questo Comitato in capo al Senato accademico e cancella i compiti di sindacare sui programmi dei candidati. Non solo: il Rettore può decadere in seguito a sfiducia di chi lo elegge (il Senato accademico), ma la bozza prevede che la sfiducia sia approvata dal Consiglio di Amministrazione (controllato dalla Provincia). La “modifica irrinunciabile” caccia il Cda dal meccanismo di sfiducia del Rettore.
3. Il Consiglio di Amministrazione. È l’organo in cui, dice Arena, “ampio potere è dato al decisore politico (e solo a lui)”. La terza “modifica irrinunciabile” riduce (non entriamo nei dettagli) lo strapotere politico nell’organismo.
4. Il Senato Accademico. Qui si interviene riducendo da tre a due i membri (professori ordinari) nominati dal Rettore
Queste proposte di modifica hanno fatto da minimo comun denominatore e sono state sottoscritte in pochi giorni da più di cinquecento persone. Ciò che è sorprendente è come a firmare sia stata la maggioranza abbondante dei professori (355 su 564 circa), l’intera commissione per la ricerca scientifica, tutti 13 i direttori di dipartimento, 9 membri su 12 del Cda.
Le cifre sono cifre. E quando raggiungono questi valori parlano di una mobilitazione, anzi di un’indignazione, che sta scuotendo alla base il progetto di Dellai.
A un certo punto le minacce tipo “Non avete il coraggio di cambiare”, e le blandizie - “Vi riempiremo di soldi” per fortuna non servono più.
Il silenzio degli studenti
Nonostante l’agitazione promossa dai docenti sulla bozza del nuovo Statuto, poco o nulla si è visto fino ad ora da parte degli studenti. Nessuna mobilitazione o protesta è partita dalle aule. Sarà il freddo, oppure che il periodo degli esami rende difficile aggregare un buon numero di persone, ma tant’è. È un silenzio preoccupante, specie se si pensa al misero ruolo che, con il nuovo statuto, gli studenti ricopriranno negli organi direttivi.
Una cosa però va detta. L’anno scorso la voce l’avevano fatta sentire eccome. Prima con l’interruzione dell’inaugurazione dell’anno accademico, poi con l’occupazione della facoltà di Sociologia. Successivamente il movimento si affievolì, un po’ forse per alcune carenze strutturali, ma soprattutto per il mancato sostegno da parte del corpo docente e della maggioranza degli studenti dell’Università, che non sembravano per nulla toccati dall’argomento.
“I docenti si muovono tardi - ci dice un ragazzo appartenente al collettivo Trento anomala - e poi le modifiche che ritengono fondamentali riguardano loro e non gli studenti. Verso marzo delle mobilitazioni ci saranno, ma non a sostegno del documento dei 427, che difende solo la loro posizione. Il male di questa riforma sta alla radice, noi lo diciamo da tempo, ma nessuno ci ha mai ascoltati”.
Non siamo d’accordo: se difendere l’università dall’invadenza della politica è un problema dei soli professori, stiamo proprio freschi. Insomma, questa assenza di protesta appare sconcertante. Ma dall’altra è pur vero che questo silenzio va compreso alla luce del menefreghismo (anche e in primo luogo dei docenti) che ha circondato questi movimenti fino ad oggi.
L. M.