Coop: la lotta per il potere
Come Diego Schelfi cerca, a tutti i costi, di succedere a se stesso.
Ci perdonerà il lettore se, in questa apertura di articolo peccheremo di protagonismo, raccontando un episodio - di cui siamo stati attori - a nostro avviso senz’altro emblematico del momento che sta attraversando il Movimento Cooperativo.
Era l’ultima assemblea di presentazione dei tre candidati alla presidenza della Federazione delle Cooperative. Dopo l’illustrazione da parte dei tre - Diego Schelfi, Erman Bona e Sandro Pancher - dei rispettivi programmi, si apriva il dibattito, e prendevo subito la parola, in qualità di presidente della cooperativa che edita questo giornale.
Abbiamo iniziato ripercorrendo i rapporti tra QT e Diego Schelfi, durante i nove anni delle sue tre presidenze: le aspettative iniziali; gli entusiasmanti programmi di rinnovamento; il loro accantonamento; e infine l’appiattimento sulla realtà, considerata l’unica possibile, i soci del tutto subalterni ai manager, le cooperative di primo grado subalterne ai consorzi. “Poi abbiamo approfondito il caso della Cantina LaVis, e il nostro giudizio su Diego Schelfi è cambiato: in peggio”.
Abbiamo quindi illustrato le grandi linee dello scandalo della LaVis: un imponente trasferimento di ricchezza, volutamente perseguito e pianificato, da 1500 famiglie contadine alla finanziaria Isa e a misteriose entità americane. E qui le responsabilità di Schelfi: nell’aver coperto gli amministratori responsabili, ostacolato chi voleva far pulizia e ricontrattare il rapporto con Isa, l’aver pilotato verso una soluzione (il commissario Zanoni) che preserva il marcio e non sana i conti. Ed ecco allora le colpe strategiche di Schelfi: aver allineato la Federazione ai “poteri forti”, tenendo come punto di riferimento non certo i soci, bensì le speculazioni di Isa, i manager che spogliano i contadini, i controllori che non controllano.
“Per questi motivi - concludevamo - riteniamo che non si debba votare per Diego Schelfi”.
Tornavamo al nostro posto, quasi all’altra estremità della grande sala, in un silenzio glaciale. Poi ancora altri lunghissimi dieci secondi almeno, di altro silenzio, sempre più surreale. Per Schelfi, alla presidenza, una situazione non sopportabile: “Sé tuti morti?” soffiava nel microfono. Ancora silenzio. “Avanti, n’altro intervento!”
Nessuno fiatava. “Iva, vei ti!” Pronta Iva Berasi, dimenticabile ex-assessora provinciale allo Sport, scattava verso il podio e sciorinava dieci minuti di compitino pro-Schelfi. Poi alcuni altri interventi.
Chiudeva lo stesso Schelfi. Dal tavolo della presidenza al leggio, con passo stanco e volto addolorato, pochissime parole cercando di colpire al cuore: “Voglio dire solo una cosa: io non sono una persona disonesta”. Metà sala, o forse più, il 60-70 per cento, applaudiva con calore. Gli altri restavano vistosamente a braccia conserte.
Una novità: i “dissidenti”
Nell’episodio, anomalo di per sé, eccezionale nell’ovattato mondo della cooperazione trentina, sta tutto l’attuale momento della Federazione. Un movimento amplissimo (150.000 soci) e decisivo nell’economia trentina, meriti sociali immensi ormai iscritti nei libri di storia; eppure in evidente crisi di crescita. Con un gruppo dirigente che ormai fa ceto sociale a sé: cresciuto per successive cooptazioni, è di livello mediocre, le mille miglia lontano dalla base sociale, tutto teso a difendersi e preservarsi. In quest’ottica va iscritta la parabola di Diego Schelfi, dalle iniziali velleità riformatrici all’attuale difesa ad oltranza nel fortino di via Segantini, con la sua naturale bonomia, punto di forza nei suoi rapporti nel movimento, ad essere ormai un paravento che malamente cela le collusioni con il mondo degli speculatori.
La crisi, pur attenuata in Trentino, ha messo a nudo queste inadeguatezze. E la base ora è sconcertata.
Che in anni di difficoltà economiche ci siano aziende in crisi, è logico. Ma qui siamo di fronte ad un sistema che non sa come rispondere, e si affanna solo nel turare questo o quel buco, nel coprire questo o quel dirigente marrano, senza alcuna evidente strategia che non sia quella di sottomettere ancor più i soci agli amministratori, le cooperative ai consorzi. E sono stati infatti i consorzi a volere per Schelfi un quarto mandato. E ora a tentare di imporlo all’insieme del movimento.
Nella base, come dicevamo, c’è sconcerto.
E per la prima volta da un secolo a questa parte, non c’è un unico candidato a presidente. A dire il vero, ci si aspettava che Schelfi, designato dai potentissimi consorzi, ossia dal ceto dirigente, non avesse, come da norma, rivali. Invece sono spuntati. In due: Erman Bona, avvocato, proprietario di un agritur, presidente della Cassa Rurale di Mori; e Sandro Pancher, viticoltore, presidente della Cassa rurale di Mezzocorona e di Promocoop, fondo mutualistico della cooperazione.
La cooperazione dicevamo, a un confronto vero, a una competizione, non è abituata. E da una parte l’establishment, sentitosi (non a torto) messo in discussione, ha reagito con acidità: i candidati non allineati sono stati appellati sulla stampa con vari titoli, “ipocriti” (da Renato Dal Palù, presidente del Sait), persone “hanno solo personali ambizioni, rappresentano un salto nel buio” (da Gianfranco Redolf uno dei cinque supposti saggi che dovevano consultare la base per vedere se c’erano spazi per un quarto mandato di Schelfi, e invece il quarto mandato lo sponsorizzavano) e più in generale l’appellativo di “dissidenti” cui Pancher ha avuto gioco facile nel rispondere: “Ma allora vi ritenete un regime”.
Di tutto questo parliamo con Sandro Pancher (con Erman Bona, che ci sembra ritagliarsi il ruolo dell’Opposizione di Sua Maestà, non ci è stato possibile parlare).
“La mia candidatura è supportata anche da Marina Mattarei (vicepresidente della Federazione) e da Giuliano Beltrami (consigliere): formiamo un gruppo che sta lavorando assieme. Ci poniamo in alternativa innanzitutto alle modalità con cui si vuole arrivare a questo Schelfi 4: la forza con cui i consorzi hanno imboccato questa scelta, prescindendo da qualsiasi altro confronto (compreso quello con i propri primi gradi) rappresenta una criticità, un problema strutturale...”
I consorzi che comandano alle cooperative, le cooperative che comandano ai soci. La democrazia alla rovescia?
“Vuoi per la scaltrezza degli amministratori, vuoi per la pigrizia dei soci, si è arrivati a questa dinamica. La possibilità di esprimersi c’è per tutti, di fatto si è perso il coraggio di alzarsi e dire quello che non va. Il socio conta poco ma deve interrogarsi: come in politica, ci sono carenze nella società civile, che non s’impegna e delega; i nostri nonni se le dicevano sul muso, oggi invece non viene ritenuto conveniente esporsi.
Questo sta portando al ceto, alla casta degli amministratori cooperativi?
“Sì, la professione di cooperatori. Che può determinare il rischio di chiudersi in un ambiente impermeabile rispetto ai problemi della base. Senza sminuire la grande positività del sistema, bisogna affrontare questo momento di svolta epocale, reinterpretando i modi in cui la cooperazione rappresenta i suoi principi, aggiornando gli strumenti, senza mai perdere il riferimento ai soci, alla trasparenza, all’equità, a un’economia prima sociale che economica”.
Cosa si può fare e cosa non si deve fare?
“Non fare: vedi l’audizione dei saggi: che non hanno fatto un’operazione ascolto, ma di indirizzo, spiegando perché bisognava votare Schelfi. E sono state presenti il 15% delle persone; per forza, così la base viene demotivata, si sente inutile nel decidere strategie già preconfezionate.”
E cosa invece si dovrebbe fare?
“Si deve far crescere nel socio di base la consapevolezza della propria importanza: è lui che deve scegliere gli amministratori adatti perché competenti. Che devono rendicontare ai soci attraverso una comunicazione trasparente. Altrimenti si innesca un circuito vizioso: al socio manca la percezione della reale situazione della sua azienda perché non c’è comunicazione, la crisi economica innestata su una crisi di valori rende meno consapevoli. Fino a che ci sarà la rabbia, quando si arriva al fondo del barile. Dobbiamo evidentemente avviarci lungo un altro percorso”.
Giochi di potere
Come si vede, non sono intenti rivoluzionari quelli di Pancher. Ma tali sono stati percepiti dall’establishment.
Da questo l’unica motivazione sensata a una riproposizione dello Schelfi 4 ci è stata proposta dal presidente del Sait Dalpalù: “In questi ultimi due anni sono cambiate le figure apicali in tutti i consorzi: Sait, Consolida, Cassa centrale, Cavit, Mezzacorona, Cooperfidi, Cla, Promocoop. Nei rapporti con l’esterno, decisivi in questa fase, con Roma innanzitutto, ma anche con Lega coop, Coop Nord Est, Federcasse i rapporti sono gestiti insieme dal presidente della Federazione e da quello del consorzio, per questo è bene che non siano entrambi due new entry”.
Altro non c’è stato, se non il ritornello che con la crisi che avanza bisogna rimanere immobili (e Obama, Hollande, Monti ecc avrebbero dovuto restarsene a casa...)
In compenso l’establishment si è innervosito. Ed ha iniziato a giocare le sue carte, quelle classiche del potere. A iniziare dal cambiamento delle regole del gioco. Da 15 giorni sono aumentati i voti: tante cooperative-scatola (cioè realtà funzionali, che non hanno base sociale, come Cooperativa Atesina, Coopersviluppo, Centrale Nord Est) hanno aumentato i propri, per un totale di 30-35 nuovi voti, tutti gestiti dai presidenti dei consorzi. In pratica oggi 8-10 persone hanno in mano 130-140 voti, alla faccia dello sbandierato principio “una testa un voto”.
Un segnale di nervosismo, dicevamo. Ma ci sono altri 700 voti, la partita è aperta.
Le fatiche di Ercolino
Vincenzo Ercolino è il responsabile marketing della LaVis, nominato dal commissario Marco Zanoni.
Zanoni a noi è sempre parso incaricato a proseguire la linea nefasta dell’era Peratoner: riconoscimento del patto scellerato con Isa (e relativi debiti); nessun approfondimento sui milioni scomparsi in America (derubricati a crediti inesigibili e quindi allegramente dati per persi); salvacondotto per lo stesso Peratoner, mantenuto contro ogni etica e logica ai vertici dell’azienda; imbellettamento dei bilanci per tenere buoni i soci.
Unica novità rispetto al Peratoner, il tentativo di rifilarne all’ente pubblico le acquisizioni megalomani. Adesso apprendiamo che in quanto a megalomania, anche Zanoni non scherza, anzi rischia di offuscare il suo sventurato predecessore: proprio con l’incarico a Ercolino.
Ercolino infatti è un nome molto noto nel mondo vitivinicolo italiano: con una storia dalle caratteristiche eclatanti. Inizia nell’86 dando vita con i due fratelli in provincia di Avellino a un’azienda vinicola, Feudi di San Gregorio, avvalendosi dei fondi europei, e degli appoggi dell’area De Mita. In pochi anni, quelli della generalizzata euforia vinicola, la cantina riesce a vendere oltre un milione di bottiglie, diventando, per l’indubbio rapido successo, un caso nazionale. I risultati vengono anche perché Vincenzo, che si occupa del marketing, investe generosamente nella comunicazione; sa proporsi, e sfrutta appieno questa sua capacità: grandi cene, macchine prestigiose, citazioni nei film (“Il mio miglior nemico” di Verdone), viaggi in elicottero, apparizioni da Vespa a Porta a Porta. “Il rinascimento enologico napoletano” viene chiamato il piccolo miracolo. Ma è un’enologia che come riferimento non prende la terra, ma il mondo della moda: costo industriale di una bottiglia un euro, costo di vendita cento, grazie all’immagine, al glamour, con la confezione che costa dieci volte il contenuto. Così l’azienda arriva a fatturare due milioni di bottiglie, molte delle quali a prezzi notevoli. Ma non è tutto oro: nonostante questi risultati, Feudi di San Gregorio va in crisi, perché se i ricavi sono consistenti, ancor di più lo sono le spese, da vita esagerata, che solo in parte trovano un riscontro economico.
Le prime avvisaglie di crisi arrivano come una mannaia: nel 2006 il cognato Pellegrino Capaldo, già presidente del Banco di Roma, uno dei maggiori banchieri italiani negli anni ‘80, molto legato ad Andreotti, alla Chiesa e a De Mita, entra in azienda con 15 milioni e la salva, imposta un’enologia basata sul territorio, retrocede Ercolino da amministratore a presidente, poi gli toglie anche quella carica, infine lo allontana.
Ercolino promuove altre iniziative: Casa Serpico con ristorante Da Sant’Anastasia, con wellness e quant’altro: dura sei mesi. Poi con Tommaso Iavarone, presidente degli industriali campani, Alfredo Romeo, influente immobiliarista napoletano, e Claudio Velardi, consulente e amico di D’Alema e dell’ex segretario campano Ds Antonio Napoli, costituisce una nuova società vinicola, Cantine A Casa: partita con grandi ambizioni ben presto si arena (nel 2011 non ha addirittura vinificato); i vari soci dai nomi altisonanti lasciano, e lascia anche Ercolino, oggi l’unico socio rimasto è Iavarone.
Insomma, questo sembra il profilo di Ercolino: grande inventiva, dinamicità, capacità di coinvolgere gente che conta su progetti ambiziosi; grandi spese, ritorni inadeguati. “Gioca all’economia alla grande, puntando forte, convinto - forse non a torto - che quella è l’unica strada perché realtà economiche modeste riescano in breve tempo ad ingrandirsi” ci dice, dalla Campania, un osservatore di quella economia. E d’altra parte i blog vinicoli sono pieni delle gesta di Ercolino: commenti entusiastici ad ogni nuova iniziativa, seguiti da giudizi impietosi al successivo flop. Nello specifico enologico Ercolino punta, oltre che sul primato dell’immagine, sulla sostanziale irrilevanza del territorio: famosa l’invenzione del Patrimo, nome di fantasia per un Merlot non autorizzato, la solita storia del vino non del posto, importato e imbottigliato, e fatto passare per una specialità. È questa la professionalità di cui ha bisogno la LaVis?
Ricordiamo - oltre il buco nero dei favori ad Isa - il non senso industriale dell’acquisto di Casa Girelli, che nel 2006 piazzava 33 milioni di bottiglie a un prezzo medio di 1,74 euro, mentre la compratrice Lavis ne vendeva 6 milioni a prezzo medio 3,74 euro, più del doppio. Acquistare un gigante che aveva tutt’altra politica industriale (nulla aveva a spartire con l’enologia legata al territorio della LaVis) si è rivelato un disastro. E ora, affidarsi ad Ercolino, che senso ha?
LaVis si ricompra Cesarini. Zanoni brinda
Apprendiamo che LaVis, attraverso la sua controllata Ethica spa, deve ricomprare al prezzo di circa 1,2 milioni il 10,4% delle azioni della casa spumantistica Cesarini Sforza in mano a tal Francesco Vezzoni, mediatore agricolo. Insomma, un altro accordo della premiata ditta Giacomoni-Peratoner, simile a quello stipulato con Isa (solo che Isa si è vista riconoscere interessi del 9% composto all’anno, il Vezzoni, con meno santi in paradiso, il 10% in tre anni, il che fa la differenza tra una predazione - Isa - e un buon affare - Vezzoni).
Per gli altri aspetti siamo alle solite. Il documento e l’impegno dovevano essere menzionati nelle relazioni allegate al bilancio, e fornita un’informativa agli organi di vigilanza. Non è successo niente di tutto ciò: la cantina LaVis, con la gestione Peratoner e ora con Zanoni, si sente libera dagli obblighi del codice civile, e tutti sembrano far finta di niente.
Poi ci sono le conseguenze sul bilancio della Cantina. Se il prezzo sborsato è congruo, cioè se il 10% di Cesarini Sforza vale gli 1,2 milioni, il patrimonio di LaVis non ne risulta intaccato (si spendono soldi ma si incamera il valore delle azioni) in caso contrario saranno ulteriori dolori; in ogni caso, prezzo congruo o no, i debiti crescono, e questo per un’azienda in difficoltà è sale sulle ferite.
Al punto che il Commissario Zanoni se ne è uscito con un improvvido “Nessun problema, tanto Cesarini Sforza la vendiamo e i soldi li recuperiamo”. Della serie tutto va ben madama la marchesa, il principio cui il Commissario sempre si attiene (al punto dal tenersi come massimo dirigente il Peratoner autore di tutti i disastri tra cui questa ultima gherminella) dando per scontate - non solo nelle comunicazioni alla stampa e ai soci, ma anche nei documenti contabili - una serie di dismissioni che sono però solo nella sua testa (ad esempio l’area di Casa Girelli è iscritta a bilancio per 20 milioni, Zanoni ha sottoscritto un accordo preliminare di vendita con Cla per 13,5 milioni - e sono già 6,5 milioni in meno - sottoposto però alla clausola del cambiamento di destinazione urbanistica - che non è scontato - e alla demolizione della stessa Girelli - che dà lavoro a 60-70 persone, per fortuna non ancora cancellabili con un tratto di penna).
A dire il vero il compito del Commissario è anche quello di infondere fiducia; ma ad esagerare in un giulivo ottimismo di maniera si ottiene l’effetto contrario, soprattutto quando si continuano a coprire le scelleratezze della precedente gestione, dai cui cassetti continuano a sortire amarissime sorprese.
C’è poi il dato di politica industriale. Cesarini Sforza è un fiore all’occhiello di LaVis, il prodotto spumantistico che completa al meglio l’offerta di qualità della Cantina. Dichiarare con tanta leggerezza di voler disfarsene, che senso ha? Marco Zanoni, impegnatosi ad assumere collaboratori tanto noti quanto discussi come Vincenzo Ercolino, che idea di Cantina ha in testa?