Art. 18: totem sì o no?
“Non ci sono totem”. Non è la sconsolata constatazione di circostanza alla fine di un film western, ma la risposta del ministro del Welfare Elsa Fornero alle punzecchiature sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In un’ampia intervista al Corriere della Sera firmata da Enrico Marro, il ministro ha sintetizzato il suo pensiero in merito: “Sono abbastanza anziana per ricordare quello che disse una volta il leader della Cgil, Luciano Lama: ‘Non voglio vincere contro mia figlia’. Noi, purtroppo, in un certo senso abbiamo vinto contro i nostri figli. Ora non voglio dire che ci sia una ricetta unica precostituita, ma anche che non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte”.
Poco prima, la Fornero aveva introdotto il tema di un contratto unico “vero, non precario”, che “includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al 100% il solito segmento iperprotetto”. Da ciò la domanda, un po’ provocatoria, di Marro sull’articolo 18; da ciò, di conseguenza, una risposta (infelice) che ha turbato non pochi animi.
Il ministro Fornero, capita la gaffe, ha successivamente rettificato, dal salotto posticcio di “Porta a Porta”, dicendosi pronta a sostenere che l’articolo nemmeno lo conosce. “Prima emergenza è l’occupazione. C’è tanto da fare nel mercato del lavoro, l’articolo 18 arriva per ultimo”. Che Bruno Vespa sia capace di istillare uno spirito più conciliante rispetto al collega Marro? Ne dubitiamo, ma non si può mai dire.
Per entrare nel merito del discorso, però, bisogna chiarire che l’articolo 18 non è né un totem, né l’ultima delle questioni. E che il ministro, questo, lo sa bene.
Lo Statuto dei lavoratori rappresenta una conquista sindacale, politica e di civiltà sulla quale non si può pensare di tornare indietro. Hanno ragione, perciò, il sindacato e quella parte di Pd che difendono l’incolumità dell’articolo 18.
È altrettanto vero però che, ad oggi, esso tutela una parte limitata di lavoratori: quelli che sono assunti a tempo indeterminato in aziende con più di 15 dipendenti. Può bastare? Certamente no.
Oltretutto, lo Statuto del ’70 è già stato abbondantemente aggirato e, a volte, beffeggiato dai datori di lavoro. Complici le infinite forme di contratto precario oggi esistenti, il padrone (il termine riacquista vigore nell’Italia dei Marchionne) ha sfruttato vari stratagemmi per sottrarsi alla legge. Come mantenere l’azienda al di sotto dei 15 addetti; oppure assumere con tutte le forme di contratto di cui sopra, evitando come la peste il tempo indeterminato.
Perché una regola funzioni, infatti, non basta che esista. Le regole vanno opportunamente create, ma devono poi essere inserite in un contesto applicativo ed essere legate ad un contesto sociale. E, soprattutto, devono essere fatte rispettare.
Questo ragionamento vale anche per il reintegro in azienda previsto dall’articolo 18. Secondo la norma, il lavoratore licenziato “senza giusta causa o giustificato motivo” deve essere reintegrato nel posto di lavoro; in alternativa, egli può scegliere di ricevere una indennità pari a quindici mensilità. Ebbene, quanti sono i lavoratori che scelgono l’una o l’altra possibilità? Chi, onestamente, tornerebbe a lavorare in una realtà ostile, nella quale i colleghi possono diventare maldisposti ed il padrone dimostrarsi rancoroso e vendicativo? I numeri dicono che i lavoratori reintegrati sono, all’anno, poche decine; a volte l’accordo economico lontano dai tribunali è preferito sia dal titolare che dal lavoratore.
Lo stesso reperimento da parte dei legali delle informazioni circa il numero di dipendenti di un’azienda in un particolare anno è complesso. Le visure della Camera di commercio forniscono (solo a fini statistici) il numero di dipendenti delle aziende, ma si riferiscono all’ultimo aggiornamento disponibile: per quanto riguarda gli anni precedenti, la richiesta deve essere inoltrata all’INPS (si può intuire con quale semplicità).
Paradossalmente, poi, la legge tutela il singolo lavoratore, ma non quei dipendenti che vengono messi massivamente in cassa integrazione per poi essere lasciati a casa. Come sta succedendo a Genova, dove centinaia di operai di Finmeccanica rischiano seriamente di rimanere per strada mentre dirigenti criminali (Guarguaglini) se ne vanno di soppiatto ricevendo buonuscite milionarie.
Questo è davvero il meglio che ci si può aspettare? La risposta, ferma, dev’essere “no”. Bisogna andare oltre l’articolo 18: non per superarlo o renderlo obsoleto, ma per estendere i diritti e allargare le tutele dei lavoratori. Adeguandole al sistema attuale e rendendole, così, più efficaci.
In altre parole: se al padrone, allo stato attuale delle cose, conviene comportarsi in un modo che, pur mantenendosi all’interno della legge, diventa di fatto eversivo, servono altre soluzioni. Il dramma reale è che oggi, in Italia, ci sono quasi quattro milioni di lavoratori precari ai quali lo Statuto dei lavoratori non si applica. Per licenziarli, è sufficiente non rinnovare loro il contratto.
Quali prestazioni può garantire un lavoratore sul quale grava l’ansiosa prospettiva di un mancato rinnovo? Come può essere messo in pratica, così, il lifelong learning del quale qualcuno, a suo tempo, si è riempito la bocca? Quale crescita ne può derivare?
Ci avevano raccontato che i contratti atipici avrebbero risolto il problema dell’immissione nel mondo del lavoro; che, a fronte di minori tutele, le retribuzioni sarebbero state più alte. Frottole con le quali si è provato a giustificare e spingere avanti un sistema iniquo e insostenibile. Che oggi non può più stare in piedi. Per fortuna, viene da dire. Perché ora si apre la possibilità, finalmente, di rimetterlo in discussione.
Il “contratto unico”
A questo proposito il “contratto unico” di cui parla il ministro Fornero potrebbe, se opportunamente definito e tenuto sotto controllo, rappresentare un’occasione di svolta su cui sarebbe delittuoso non confrontarsi.
La proposta non va accolta in modo acritico. Ma è un segnale incoraggiante che si incominci a parlare di estensione dei diritti: di assunzione a tempo indeterminato da subito; di stipendio dignitoso, adeguato ai contratti nazionali e con soglia minima; di diritto a ferie e permessi retribuiti, a periodi di malattia, al congedo per maternità, a orari e ruoli definiti, al trattamento di fine rapporto; di contributi pagati dal datore di lavoro.
Certo, un simile sistema deve mettere in conto, tra le possibilità, anche il licenziamento. Che però è previsto pure adesso: manifesto (l’articolo 18 non a caso parla di “giusta causa”) o mascherato (il mancato rinnovo del contratto precario). In compenso, però, un nuovo contratto definito con serietà potrebbe prevedere, in caso di licenziamento, anzitutto una buonuscita, e poi un sussidio (anche a decrescere) per tre anni, inserito in un sistema di welfare nazionale, e ancora un servizio di formazione continua e di ricollocamento a carico dell’azienda licenziante.
Le cose buone, però, non vengono da sole. E forse un governo di stampo conservatore, per quanto tecnico, non è in grado di portare a termine in autonomia una riforma convincente. Per tale ragione c’è bisogno dell’intervento di molti, a partire dal sindacato, che deve garantire un controllo vigile, onesto e inflessibile.
Non si può dire, oggi, se Elsa Fornero sia il ministro giusto, né se l’attuale governo liberal-capitalista sia quello buono: ma il dibattito rappresenta un’occasione da non perdere per ridare dignità al lavoro.
La lotta è appena cominciata. Ed è di classe.