Il prete con la motocicletta
Incontro con Padre Henry in una realtà, la Colombia, che lotta per l’acqua e per la vita
“A-ha”. Risponde sempre così padre Henry, quando deve dire di no. “A-ha”, con una cantilena nasale che è uno spasso, una delle tante cose divertenti di questo uomo molto allegro. Ha 36 anni e da quasi un decennio sta a Medellin del Ariari, in Colombia, con la sua missione. Fa parte dell’ordine dei Clarettiani, ed è membro della Commissione Interecclesiastica di Justicia y Paz.
Justicia y Paz, da vent’anni e oltre lotta per la difesa dei diritti umani. Henry Ramirez Soler - Padre Henry - vi si è avvicinato fin dall’inizio. “Questo mi permette di coniugare la fede e la politica, che non devono stare disgiunte, non qui, non in Colombia”. I Clarettiani, d’altronde, sono stati fra gli ordini che hanno fondato, nell’89, la Commissione.
Medellin del Ariari è una buona fotografia della Colombia. È bella, è povera, è un puntino in mezzo alla cartina di un paese immenso. È braccata dal paramilitarismo e stritolata dalle multinazionali, in particolare le nuove regine della devastazione e della violenza, le industrie minerarie. È coraggiosa.
Camminando per questo paesino dal nome altisonante - uguale a quello della grande ed elegante città del dipartimento di Antioquia, nell’occidente del Paese, nota per il cartello della droga che faceva capo a Pablo Escobar e per i tanti centri commerciali - ci sono i pancartas con le fotografie piccole e bianconere. Sono dei cartelloni appesi alle pareti delle case, della chiesa, di alcune tiendas, i piccoli negozi che vendono tutto. Riproducono, questi posters, la mappa della regione, disegnata a vivaci colori che contrastano con le fotografie grigie di tante facce stampate a gruppi. Sono come tante fototessere. Grandi frecce gialle indicano una o l’altra zona della regione. Sono le ultime fosse comuni trovate. Decine di uomini e donne, quasi tutti giovani, ancora ragazzi. Morti ammazzati che hanno un nome ma che nessuna famiglia ha reclamato. E allora si fanno i cartelloni nella speranza che qualcuno li riconosca. Campeggiano in mezzo ad una quotidianità abituata alla morte, ma tenacemente proiettata alla vita. Contrasti tipici della Colombia, che pulsa, balla e urla di disperazione, tutto insieme, sempre.
Una repressione feroce
L’Ariari è il grande fiume che attraversa la regione del Meta. Questi fiumi enormi e placidi sembrano portare le voci della Colombia da una parte all’altra del paese e ora portano molto piombo, mercurio e arsenico. C’è la Niña, il fenomeno meteorologico che dovrebbe raffreddare le correnti del Pacifico e che quest’anno ha portato solo piogge: qui è sei mesi che piove. Dunque l’Ariari e i suoi affluenti continuano a straripare. Medellin del Ariari, che sono quattro strade e un pugno di famiglie in mezzo a infinite pianure e colline boscose, è un paese che convive col fango.
Per arrivarci ho preso un paio di autobus da Bogotà. Viaggio tranquillo, tutto sommato, che dalle Ande mi ha fatto scendere di quasi 3000 metri. Solo qualche militare aveva voluto mostrarsi zelante e a Villavicencio, la cittadina dove si effettua il primo cambio, mi ha chiesto dove andavo e ha voluto vedere i documenti, mostrando qualche muscolo. “Sicura di voler andare laggiù?”, mi aveva domandato Danilo prima di partire, l’amico bogotano che lavora con noi e che mi aveva ospitato nella capitale. “Non mi pare ci siano grandi problemi - avevo detto - me ne avrebbero parlato”. “Quello che è successo a me l’anno scorso allora te lo racconto quando torni”, aveva risposto Danilo.
Il dipartimento del Meta ha una storia densa. Qui è nato il Partito Comunista Colombiano. Qui le lotte sociali sindacali e dei contadini si sono intrecciate con la nascita del progetto Unión Patriótica, il movimento politico che raccoglieva ex combattenti delle Forze Armate Rivoluzionarie, esponenti della sinistra, liberali, dirigenti sociali, perfino qualche conservatore, per cercare una via pacifica per promuovere il cambiamento necessario al paese. Nato nell’85 sotto la presidenza di Belisario, non ha mai smesso di essere brutalmente perseguitato.
“Il Meta storicamente è uno degli insediamenti più importanti della guerriglia ed in particolare delle FARC-EP; - mi aveva raccontato Danilo prima della partenza - proprio per questo è stato così massacrato. Una repressione feroce: terrore, massacri, desplazamentos (sfollamenti) forzati delle comunità. Dal 2001 una nuova operazione militare e paramilitare programmata dal governo aveva prodotto una nuova ondata di sfollati, a migliaia costretti ad abbandonare tutto: case, campi, animali. La scusa ufficiale era la solita, la lotta al terrorismo. Di fatto, vengono espropriate grandi estensioni di terre fertili e grandi quantità di acqua di cui la regione è ricchissima”.
“Ahi, compañera, llegaste!”, dice Padre Henry quando arriva alla missione dove lo aspetto da un po’, il tempo di vedere terminare la lunga fila di anziani in coda per una ciotola di zuppa distribuita dalla señora Lina dalla cucina.
Henry è andato a dare un’occhiata al fiume che sembra straripare di nuovo. Come sempre ci è andato in motocicletta, una Yamaha azzurro-aggressiva. Smonta dal mezzo ed è pieno di fango. “La catena, è caduta di nuovo” mi spiega. Sarà anche il mio mezzo di locomozione per i prossimi giorni. Ci si monta in 3 e si fanno superslalom fra le pozzanghere. E la catena in effetti cade sempre.
La missione di Padre Henry è una chiesetta azzurra e una costruzione modesta, adiacente, con un patio interno e il tetto di latta dove si dorme e dove ci sono tre bagni, ora senz’acqua per le grandi piogge. Ad ogni ora passa gente. Bambini che hanno in Padre Henry e nei suoi due aiutanti - due giovani seminaristi - il loro punto di riferimento (per questo Henry ha attivato alcuni percorsi di coinvolgimento di giovani in attività educative). Quelli che vogliono qualche medicina. Quelli che hanno paura. Henry c’è sempre, per tutti, aiutato da qualche volontario, dalla cuoca, dagli osservatori internazionali che lavorano con Justicia y Paz, fra i quali Anna Ballardini, nostra amica e collaboratrice, originaria di Tione. La mattina Henry si sveglia prima delle sei per le messe e le prime incombenze. La sera è l’ultimo ad andare a dormire.
La lotta per l’acqua
“Il cabildo abierto è andato molto bene “, spiega Henry, mentre gli brillano gli occhi nel vedere la bottiglia di olio d’oliva e il formaggio grana che ho portato - sotto richiesta - dall’Italia. Qualche giorno prima del mio arrivo la comunità di Medellin del Ariari è riuscita ad ottenere un confronto aperto con i vertici della società che gestisce l’acqua della zona (il cabildo abierto, appunto). “Qui la gente si è organizzata attraverso piccoli acquedotti comunitari. - spiega Henry - Altrimenti non riescono ad avere acqua. O costa troppo. O l’impresa che la gestisce è connessa con le stesse industrie minerarie che avvelenano l’acqua per le estrazioni”.
Il 25 di novembre dell’anno scorso oltre 400 persone, rappresentanti di tutte le comunità e fattorie della zona, si sono messe faccia a faccia con l’impresa Edesa SA Esp e i rappresentanti del Municipio del Castillo, sotto cui sta Medellin del Ariari, per chiedere il riconoscimento dei propri acueductos comunitarios. “È stato un passo importante. Una forma di riconoscimento ufficiale di queste realtà senza le quali non ci sarebbe acqua in nessuna delle case lontane dal centro. I contadini attorno all’acqua stanno recuperando la loro forza organizzatrice e persino la propria identità”.
È per questo che siamo qui. Collaboriamo con alcune comunità proprio sulla questione degli acueductos comunitarios. Forme di resistenza civile in un panorama di guerra. Ma anche soluzioni interessanti di gestione partecipata delle risorse idriche. Anche per i movimenti europei per l’acqua come bene comune, che a marzo si troveranno impegnati nel FAME, il forum alternativo dell’acqua che si terrà a Marsiglia, e che nelle riunioni preparatorie hanno citato più volte gli acueductos colombiani.
Il cabildo abierto è stato comunque un atto di grande coraggio. Il terrore infatti, non è riuscito a piegare la volontà dei contadini dell’Alto Ariari.
Agli inizi del decennio, a ondate, hanno tentato di mandarli via. Prima con la strategia del terrore, assassinando tutti i leaders sindacali e di lotta. Poi sono arrivati i paramilitari che hanno spazzato via a suon di violenze gli abitanti dalle loro terre. Ora tentano di allontanarli con la coercizione, multinazionali che comprano terre e avvelenano fiumi rendendo la vita impossibile. Con le falsità e le menzogne.
Ma qui la gente ha deciso di tornare. Per recuperare la propria dignità. Al desplazamento è seguito un processo di organizzazione. La Commissione Justicia y Paz organizza zone umanitarie perché loro possano ricominciare a vivere. In particolare, è proprio attorno all’acqua che queste comunità riescono a porre in campo abili processi di partecipazione e di orizzontalità. In un paese che conta più di venti milioni di assetati, di donne e uomini cui è impedito l’accesso all’acqua potabile a causa delle privatizzazioni selvagge che il Governo Santos - nel solco tracciato dal predecessore Uribe - favorisce; di industrie minerarie che si stanno accaparrando enormi quantità di acqua per le miniere a cielo aperto; in un Paese come questo le forme comunitarie di gestione dell’acqua servono il 20% della popolazione. Con tariffe eque, senza tagliare il servizio a chi non ha soldi per pagare. Reinvestendo il denaro nella stessa manutenzione delle infrastrutture. E opponendo alla logica della guerra quella della pace.
Il paese fantasma
Chiediamo a Padre Henry di spiegarci bene come funzionano le zone umanitarie: “Justicia y Paz mette in campo processi di accompagnamento delle vittime di desplazamentos nei loro territori. Fa parte della nostra visione di appoggio alle comunità nel mezzo del conflitto armato. Le zona umanitarie vengono create per dare visibilità alla popolazione civile, esigendo il diritto alla distinzione della popolazione civile in mezzo al conflitto. Le zone umanitarie necessitano dell’osservazione permanente di attori internazionali, fa parte della nostra strategia. Ma le zone sono totalmente gestite dalle comunità”.
Partiamo per visitarne una, la Comunidad Civil de Vida y de Paz di Puerto Esperanza. Nel tragitto, fra una sosta e l’altra per rimettere la catena della moto al suo posto, Padre Henry mi racconta della Colombia oggi: “Il conflitto armato si è acutizzato. La repressione contro i difensori dei diritti umani e contro la insurgencia, è sempre peggiore. Anche per noi. Contro i membri della Commissione Giustizia e Pace è in atto un piano di attacco su due fronti: uno giudiziario e mediatico ed un altro persecutorio. Coloro che traggono vantaggio dalla violenza paramilitare per ottenere i benefici provenienti dal commercio della palma, dall’allevamento intensivo, dalla coltivazione dei banani e dalle industrie minerarie, si occupano anche di screditare il lavoro di chi difende i diritti delle comunità”.
Non stupisce. In Colombia viene ucciso un attivista al mese. Migliaia di civili, circa 1.500 l’anno, più le sparizioni, oltre 20.000. Almeno 46 sindacalisti sono stati ammazzzati nel corso dell’anno passato e il numero degli sfollati è in costante crescita (oltre 4 milioni). “Ma lei, Padre, non si sente inerme?”, gli chiedo. “A-ha. Io vivo giorno per giorno con la mia comunità, insieme costruiamo il presente e il futuro. L’impegno politico e l’impegno con la fede, la spiritualità della dottrina della liberazione, sono il mio appoggio nel lavoro di difesa della vita e dei diritti umani”.
Arriviamo a Puerto Esperanza. Sembra un paese fantasma. Qui massicci assassinii e deportazioni fra il 2000 e il 2005 hanno spazzato via un intero villaggio. Ci sono le case bruciate e i negozi vuoti. Ci sono le croci dei morti e l’albero della vita, una immensa e meravigliosa pianta alta decine di metri alla base della quale molte pietre scritte tracciano la memoria luttuosa della comunità. Ma la gente è tornata. Le famiglie, dapprima solo alcune decine, si sono unite per gestire insieme un terreno e alcuni campi. C’è anche una piccola scuola e il laboratorio dove lavorare la canna da zucchero. “Avevano troppa paura a stare divisi in fattorie lontane, come erano prima”, mi spiega il prete.
Ci incontriamo con i rappresentanti degli acquedotti comunitari locali. Dobbiamo prepararci al nuovo incontro con le istituzioni, che di fatto lasciano queste comunità prive di qualsiasi apporto. Nessuno qui ha acqua potabile, l’incidenza di malattie per acqua inquinata è impressionante, non ci sono fogne. E questo è un grande problema per le comunità che vogliono riniziare a vivere nelle proprie terre. Eppure non c’è lagnanza. C’è lucidità organizzativa. C’è la consapevolezza delle trappole in cui non cadere, nelle infinite ragnatele della Colombia.
Sulla via del ritorno Padre Henry mi racconta di quando era in Francia, a Parigi: “Ci sono stato quattro anni, dal 2005 al 2009. Poi sono tornato qui, dove ero già stato dal 2000 al 2005”.
“Non se ne pente mai?”. Si guarda intorno. Scruta fino in fondo il verde intenso dei prati che ormai, all’imbrunire, si stempera nella nebbia che avvolge la base delle montagne. Guarda la moto, scassata e infangata. E guarda noi, con gli stivali di gomma e il fango fino alle ginocchia e un sorriso ben stampato in faccia. Ci fissa negli occhi. “A-ha”, risponde, e ride.
Francesca Caprini fa parte dell’associazione Yaku - www.yaku.eu