Il lavoro, l’articolo 18, il Trentino
In Trentino padroni e sindacati sembrano andare d’accordo. Anche con lo scontro sull’art. 18? Il “modello Trentino”, le sue specificità, e quanto è lontano dal “modello Berlusconi”. Riuscirà a reggere?
"Con il padronato, in questi anni, sulla politica industriale abbiamo sempre trovato convergenze - ci dice il segretario della Cgil Bruno Dorigatti - Ma l’articolo 18 è un elemento di rottura."
"In provincia di Trento, le imprese non hanno bisogno di strumenti per licenziare, ma per mantenere la mano d’opera - afferma Franco Ischia, anch’egli della segreteria Cgil - Ma sicuramente se passasse l’art. 18, anche qui il clima si deteriorerebbe, e di brutto".
In questi ultimi anni il sindacato trentino è andato d’amore e d’accordo con la Confindustria locale. In un rapporto a tre con i vari governi provinciali hanno affrontato e risolto la devastante crisi industriale dei primi anni ’80, hanno portato Rovereto da una disoccupazione del 20% alla ricerca degli immigrati, hanno messo in piedi l’Agenzia del Lavoro, hanno varato i Patti Territoriali. Ma ora è il medesimo sindacato a sentirsi tradito.
Dorigatti cerca di consolarsi, "A dire il vero, a parte l’esternazione del Presidente degli Artigiani, che voglio considerare un incidente di percorso (gli aveva dato del "talebano" per la sua difesa a oltranza dell’art. 18, n.d.r.) tutti hanno tenuto un profilo basso", eppure… "…eppure adesso anche il modello trentino è a rischio."
Ma in cosa consiste questo "modello trentino"? E come viene investito dalla bufera che da Roma sta soffiando sulle relazioni industriali?
E’ il cosiddetto "Piano del Lavoro", presentato alla stampa proprio in questi giorni, a illuminarci sulla filosofia - e sugli interventi pratici - della politica industriale che concordemente sindacati, padronato e Giunta provinciale intendono varare. Il metodo è insomma quello della mitica "concertazione", parola forse usurata, che significa che industriali, sindacati e governo la politica industriale la progettano assieme.
E gli obiettivi?
Il loro elenco è illuminante di questo famoso "modello trentino".
In ordine infatti: il reperimento di mano d’opera, condizione vitale per tante imprese: quindi immigrati, ma anche politiche di inserimento delle donne e dei lavoratori anziani (gli over 50, altrimenti considerati buoni solo per la rottamazione); la stabilizzazione dei rapporti di lavoro, cioè la diminuzione della precarietà, nella convinzione che essa nuoccia certamente al lavoratore, ma anche all’impresa, soprattutto industriale, che rischia di perdere forza lavoro professionalizzata e onerosa da sostituire; l’attenzione alle fasce deboli, nell’ottica di portare all’interno del mondo del lavoro quelle porzioni di popolazione, come portatori di handycap, ma anche di disagi sociali o psichici, per risolvere con l’integrazione lavorativa le esclusioni sociali.
Tutto questo si raggiunge attraverso incentivi ed individuazione di flessibilità negli orari di lavoro, per venire incontro a molteplici esigenze (basti pensare a quelle delle donne), investimenti nella formazione.
"Abbiamo prima discusso la filosofia generale e siamo arrivati a una linea condivisa; poi siamo passati a discutere gli strumenti operativi - ci dice Franco Ischia, uno dei rappresentanti di parte sindacale della Commissione Provinciale dell’Impiego che ha varato il Piano del Lavoro - Voglio sottolineare come questo sia un metodo molto diverso da quello del governo; il quale ci dice: ‘Questo è il Libro Bianco, sono le nostre filosofie, dovete adeguarvi’; e poi per di più piantano il chiodo su uno degli aspetti più odiosi, neanche contenuti nel Libro Bianco, come la soppressione dell’articolo 18".
In effetti poi i risultati sembrano molto diversi. Prendiamo il tema ora più scottante, quello degli ammortizzatori sociali, cioè i provvedimenti che rendono meno drammatica la perdita del lavoro, e aiutano il lavoratore a trovare un nuovo posto. (In proposito ricordiamo come proprio la presenza di robusti ammortizzatori caratterizzi altre società europee, dove è sì più facile licenziare, ma il licenziato gode poi di un’ampia rete protettiva).
Come si vede dalla tabella Gli ammortizzatori sociali, il governo Berlusconi non solo si appresta a sopprimere l’articolo 18, ma ha già abolito la "lista di mobilità" per i licenziamenti collettivi delle piccole aziende: cioè ha abolito gli sgravi contributivi (previsti per due anni: circa 20 milioni di lire) a favore delle aziende che assumono questi lavoratori. ("Adducendo che la cosa è da discutere all’interno di una riforma complessiva, ecc. ecc. - commenta Ischia - e intanto chi perde il lavoro si trova a terra").
Il Piano del Lavoro trentino, invece, rimedia a questo, istituendo una lista provinciale di mobilità, con la Provincia che si assume lei il carico contributivo delle aziende (e quindi favorendo il rientro sul lavoro di coloro che lo hanno perso). Non solo: nel periodo di licenziamento viene corrisposta un’integrazione regionale, in maniera che l’indennità di disoccupazione - altrimenti, nel resto d’Italia, ferma al 40% della retribuzione - raggiunga in ogni caso il minimo vitale di 1.250.000 lire.
Insomma, pare evidente una diversa direzione di marcia. "Il nostro modello di sviluppo - ribadisce Dorigatti della Cgil - è antitetico a quello del Nordest, fondato su uno sviluppo caotico, sregolato; anche perché da noi il rispetto delle regole, il senso dello Stato, coinvolge le imprese, che non tendono certo all’evasione fiscale come movimento anti-statale, come nel caso dei padroncini veneti della LIFE. Un modello in cui c’è una flessibilità intelligente, non selvaggia, con accordi sui turni, sugli orari, sugli ammortizzatori sociali che hanno permesso di affrontare le crisi, di rimuovere le imprese non concorrenziali, di innovare insomma, ma senza traumi".
Tale impostazione è stata ribadita ancora in questi giorni, con la sottoscrizione da parte dell’Associazione Artigiani e dei sindacati di un nuovo accordo per ampliare le tutele a favore dei dipendenti delle piccole imprese. "Questo è possibile anche perché la coperta (ossia i soldi dell’Autonomia) è larga, e permette, volendolo, di coprire tutti - ammette Dorigatti - Però i soldi bisogna anche spenderli bene, e mi sembra si possa dire che il metodo della concertazione ci ha permesso in questi anni di trovare risposte adeguate. Metodo, tengo a sottolineare, che non esclude il conflitto, che invece è sempre stato mantenuto, e spesso ha dato la spinta per trovare nuove soluzioni".
Articolata la valutazione del prof. Luca Nogler, ordinario di Diritto comparato del Lavoro alla facoltà di Giurisprudenza di Trento: "Mi sembra azzardato contrapporre una politica provinciale del lavoro a quella nazionale. Sull’articolo 18 non c’è competenza provinciale; e inoltre è prematuro dare giudizi sull’operato del governo in tema di ammortizzatori sociali. Certo, se i provvedimenti si limitassero a quelli attualmente presi, il giudizio dovrebbe essere molto duro, ma si aspettano altre modifiche, positive.
Detto questo, bisogna riconoscere gli indubbi meriti del Piano, laddove amplia le tutele ai lavoratori delle piccole imprese , e per la centralità data al lavoro come mezzo di integrazione sociale delle varie fasce di popolazione".
Questo è un dato che preme sottolineare all’assessore provinciale Remo Andreolli (DS), che ha presieduto la Commissione autrice del Piano: "L’ottica è che tutta una serie di problemi sociali, possono essere affrontati, prima che a livello sanitario, o assistenziale, o repressivo, attraverso il lavoro, che è uno strumento potente, forse il maggiore, di integrazione sociale."
"Questo è possibile - spiega il prof. Nogler - perché in Trentino, grazie a una tradizione dell’Autonomia, ci sono strutture come l’Agenzia del Lavoro, i Centri per l’Impiego (cioè gli uffici del Collocamento), o la formazione professionale, che permettono una politica pubblica sul mercato del lavoro. Mentre in altre parti d’Italia è più logico pensare di devolvere al privato funzioni come il collocamento, talora sedi di lottizzazioni e clientele".
Non tutto è oro quel che luccica. Per esempio, l’Agenzia del Lavoro soffre di eccessi di burocratizzazione da ansimante carrozzone (per avere ulteriori pareri via e-mail, abbiamo cercato per 24 ore di farci dare una copia su supporto informatico del testo del Piano; e siamo stati rimandati da un ufficio all’altro, da una segretaria a un dirigente "che si assumesse la responsabilità", e che poi risultava sempre "in riunione" o "appena uscito").
Oppure i corsi di formazione, mitica giungla in cui prospera di tutto, anche un sottobosco di ciarlatani ammanicati, dediti a una proficua caccia a contributi europei e/o provinciali (nella scuola, per esempio, si dice sempre che quando un professore non ha più voglia di insegnare, si mette a fare corsi di aggiornamento...).
"E’ un problema vero - ci risponde Dorigatti - C’è tanta formazione effettuata da una miriade di soggetti (circa duecento!), ma poca è di qualità. E’ senso comune che la formazione serva soprattutto ai formatori. Bisognerà operare verifiche e una severa selezione tra i formatori."
"Lo sforzo della Provincia è notevole - asserisce il prof. Nogler - Poi sull’effettiva incidenza dell’insieme di questi interventi, è ancora difficile pronunciarsi".
"Nel Piano abbiamo previsto strumenti di monitoraggio e di verifica - risponde l’assessore Andreolli - Vogliamo conoscere l’efficienza e l’efficacia dell’attività svolta. E questo non solo per controllare, ma anche per avere input, per adattare gli strumenti".
Il fatto è che la formazione, all’interno del Piano, è centrale. "Perché sul fronte occupazionale il problema vero è sintonizzare le professionalità richieste dalle aziende con quelle presenti sul mercato - ribadisce Ischia - L’industria manifatturiera richiede sempre più professionalità; il settore dell’informatica e dei servizi all’impresa rischia di trovarsi in difficoltà per mancanza di manodopera qualificata; ci potranno essere degli espulsi dal settore tessile: si tratterà di trovare loro un posto a un livello più alto di qualificazione. E più in generale bisogna far crescere di professionalità l’insieme del mercato del lavoro".
"Cerchiamo di dare risposte adattabili nel tempo, anche qualora il vento dovesse cambiare, e in un periodo di crisi ci dovesse essere un calo di occupazione. Ecco che allora - dice Andreolli - diventa importantissima la formazione continua".
Dorigatti allarga il discorso: "Stiamo concludendo un ciclo: il tipo di innovazione che abbiamo promosso finora, e che è stata medio-alta per alcune imprese, nel mercato globale non basterà più. Occorre più innovazione di prodotti, di processi produttivi, e quindi più formazione, verso figure professionali nuove, sia ai bassi che agli alti livelli.
Siamo di fronte anche a questo problema: quale tipo di investimenti nella formazione? Anche quelli fortemente intensivi, che producono pochi posti molto qualificati, e bruciano gli altri? Io penso che in questa fase di piena occupazione ci si possa rivolgere anche verso questi investimenti, che poi saranno più duraturi. Ma è un processo delicato, che deve essere governato, e quindi prevedere un momento concertativo forte."
Si ritorna quindi alla concertazione, al modello di sviluppo. In tutto questo l’articolo 18…
"L’articolo 18 è imprescindibile - afferma duro Dorigatti - perché consente al lavoratore di avere voce e diritti, di essere un soggetto libero: sul lavoro può discutere, polemizzare, magari aprire anche un conflitto; ma tutto questo porta avanti l’azienda. Altrimenti c’è l’altra opzione: pochi diritti e un’industria a bassa formazione, bassi salari, bassa qualità, che sia concorrenziale per il costo del lavoro e la fiscalità (che poi vuol dire debole stato sociale). Non ci pare questa la strada".