Contro i bombardieri umanitari
“L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che vorrebbe far l’angelo ma fa la bestia” (Blaise Pascal)
“La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni” (Karl Marx)
Due citazioni per inquadrare dal giusto punto di vista l’atteggiamento dei bombardieri umanitari e prendere fermamente le distanze da loro e - ahinoi - dall’editoriale del numero di aprile 2011 di QT, giornale col quale abbiamo assiduamente collaborato fino a poco tempo fa.
Il direttore (e presumiamo la redazione) sostiene la guerra in Libia e pretende di distinguerla dalla guerra in Iraq. Ma le due si assomigliano parecchio. Entrambe sono state scatenate per ragioni di portafoglio (le risorse energetiche) ed entrambe sono basate sul presupposto da illuminismo deteriore che la democrazia e i diritti umani si possano esportare con le bombe. O meglio: sul presupposto che l’esportazione della democrazia e dei diritti umani a suon di bombe possa ancora valere come scusa accettabile per continuare a garantire all’Occidente il controllo delle risorse energetiche.
A sconfessare l’ipocrisia dei bombardieri bastino quattro considerazioni, tre specifiche e una più generale.
Prima considerazione specifica: se, come voleva la risoluzione dell’ONU - emanata in nome della cosiddetta “responsabilità di proteggere” -, l’obiettivo della no-fly zone (e quindi delle bombe) era proteggere i civili dall’assalto delle truppe di Gheddafi, non si capisce perché le bombe continuino a cadere sui civili stessi, benché di Tripoli. Come si può differenziare tra civili di una parte e civili dell’altra? La risposta sta nel fatto che il vero obiettivo non è la protezione dei cittadini libici, ma il cambio di regime: come con Saddam, per capirsi. E la fretta francese d’intervenire lo dimostra.
Seconda considerazione specifica: il sedicente intervento “umanitario” si prefigge di abbattere un dittatore per anni foraggiato dalle stesse armi occidentali. Come si può essere così ingenui da credere in un Occidente che prima sostiene Gheddafi e poi se lo leva di torno con le bombe? Dov’è il presunto spirito democratico? La real-politik degli interessi geo-strategici si fa un baffo della lotta per la libertà. Il direttore Paris nel suo editoriale ricorda i volontari partiti per la guerra di Spagna. Noi gli ricordiamo che a fianco dei repubblicani vi erano anche le armi e i denari di Stalin. Che di certo non aveva a cuore la libertà e la democrazia spagnola, come i cruenti fatti di Barcellona stanno a testimoniare.
Terza considerazione specifica: l’Occidente sta sostenendo un movimento di ribelli la cui affidabilità democratica è incerta. Non scordiamo il recente passato: le bombe occidentali sui serbi dovevano servire a proteggere i cittadini kosovari, con il risultato di creare in primo luogo una contro-rappresaglia albanese a danno dei civili serbi, e in secondo luogo di favorire la costituzione di uno Stato di fatto in mano alla malavita. Ma questo, all’Occidente che lotta per la libertà, importa poco.
La considerazione generale: se i libici sono degni di protezione, non si capisce perché l’ONU non deliberi di proteggere anche i civili della Striscia di Gaza (dalle bombe israeliane), dello Yemen, del Sudan, della Birmania e degli altri Paesi vessati da regimi dittatoriali anche più sanguinari di quello di Gheddafi. La risposta sta nel fatto che il vero obiettivo non è la protezione dei civili, ma degli approvvigionamenti energetici e dei cosiddetti “equilibri geopolitici” che garantiscano all’Occidente di proseguire indisturbato nel mantenimento del suo “way of life”.
Restiamo convinti che la liberazione dei popoli non potrà che avvenire per mano dei popoli stessi e non per mano di coloro che - quotidianamente - insanguinano il pianeta con le loro politiche di guerra. I popoli arabi l’hanno capito, noi l’abbiamo forse dimenticato? Si chiama autodeterminazione, quella cosa che - purtroppo - l’attuale “sinistra democratica” ha tristemente buttato tra i ferrivecchi della politica: è più scomodo sostenere questo principio che aderire, per comodità, alla “missione civilizzatrice” dell’Occidente.
E non può essere, come dice Paris, che il processo alle intenzioni sia ozioso e le bombe vadano accettate purché producano risultati (tutti da stabilire: come quelli in Iraq?) e perché “così vanno le cose”. La stessa risposta che, venendo alle piccole questioni locali, a Paris avrebbe potuto dare Grisenti: “Le imprese trentine lavoravano, questo è un risultato. Poco importa se c’era corruzione, così vanno le cose”.
Detto questo, ci dispiace ulteriormente che l’interventismo liberal e umanitario trovi spazio proprio sulle pagine (addirittura quella dell’editoriale) di un giornale che si è sempre detto “di sinistra”. Questotrentino, a nostro avviso, ha una grande responsabilità nella sfera pubblica trentina (seppur limitata dalla ridotta diffusione del giornale): quella di occupare lo spazio assai ristretto rimasto a disposizione della cosiddetta stampa libera, cui fa riferimento una parte esigua ma pulsante della cittadinanza provinciale. Con editoriali come quello dell’aprile 2011, tuttavia, questa responsabilità sembra tradita. Ma forse qualcuno nella redazione si è distratto e ha capito “stampa liberal”. O forse avevamo capito male noi, all’inizio. Comunque sia: peccato.
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Un’ottica rinunciataria
La lettera dei nostri ex redattori è in linea con sentimenti e cultura di una parte cospicua della sinistra e del pacifismo. Che rispettiamo, ma con cui non siamo d’accordo. Perché frutto di una rigida ideologia, che prescinde dai fatti e si accontenta di fornire risposte e indignazioni preconfezionate.
Partiamo dai fatti, appunto: le rivolte nel Maghreb (qui la differenza fondamentale con l’Iraq) per il pane e la democrazia non sono certo azioni imperialiste fatte scattare ad arte da qualcuno per motivi egemonici. Siamo di fronte a una svolta che può essere epocale: nel nord Africa vedono le nostre TV, in molti frequentano le università europee, hanno costumi e stili di vita ormai in gran parte occidentali e ora vogliono anche la democrazia, vogliono anche il lavoro, il benessere, i diritti. Sono stanchi di regimi in cui il rais di turno sta al governo 30-40 anni, accumula patrimoni immensi e affama la popolazione.
Di fronte a questo cosa facciamo? A quei giovani vogliamo dare una mano? O lasciamo che siano fatti a pezzi dai carri armati del dittatore? Per paura dei colpi di coda di un imperialismo peraltro ormai in declino, con l’America che difatti si defila, oppure perché temiamo Sarkozy, novello spauracchio?
I nostri amici si dicono convinti che la liberazione dei popoli non potrà che avvenire per mano dei popoli stessi: insomma lasciamo fare ai dittatori e ai loro mercenari.
È un’ottica rinunciataria. È un capitale ideale della sinistra che viene buttato via: battersi per la libertà, e averne una visione sovranazionale. E invece si rinuncia per partito preso ad ogni azione di politica internazionale, perché “dietro” ci può essere l’interesse di qualcuno. Ma di grazia, la politica, estera come interna, l’azione nella società, non vuol forse dire proprio confrontarsi con i tanti interessi, che ci sono sempre, dietro, davanti e di lato? Non vuol dire combattere quelli illegittimi (nel nostro caso possibili aspirazioni neocoloniali), comporre quelli legittimi (nuove partnership economico-culturali tra stati liberi), per cercare nuove soluzioni, esiti più avanzati, società migliori?