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Il ‘48 del mondo arabo

La rivoluzione araba, il revival dello “spirito di Suez” e i nuovi scenari mondiali

Il mondo arabo è a un bivio. Non è il primo della sua storia recente. All’arrivo di Napoleone in Egitto (1798) s’era prodotto un vero trauma: per la prima volta dopo dodici secoli l’Islam, che aveva conosciuto sino allora solo espansioni, subiva un’invasione di “infedeli”. Non sarebbe stata l’ultima: a ruota seguirono, nel corso dell’ 800, l’occupazione francese del Maghreb, quella britannica dell’India, quella russa dell’Asia centrale turca, il protettorato anglo-russo sulla Persia e infine le imprese coloniali italiane.

Dopo la prima guerra mondiale si presenta un nuovo bivio: spartite le spoglie dell’impero ottomano (accordo segreto Sykes-Picot del 1916 tra francesi e inglesi), sorgeranno più tardi, in nome del nazionalismo arabo (più anti-turco forse che anti-europeo), numerosi stati indipendenti tra l’Africa settentrionale e il Golfo. Alcuni verranno disegnati a tavolino con la squadra (si pensi ai confini tra Iraq, Siria, Arabia e Giordania), altri tirati fuori come conigli dal cilindro (Kuwait ed emirati vari del Golfo Persico).

Un terzo bivio si presenta negli anni ‘50 con la rivoluzione socialista di Nasser (1952) che contamina tutta l’area, dall’Algeria allo Yemen, passando per la rivoluzione baathista in Siria e Iraq, ma suscitando la reazione dell’Arabia Saudita. La quale si farà garante degli interessi occidentali e finanzierà la rinascita islamista in chiave anti-nasseriana e anti-marxista; questa politica filo-islamista fu sostenuta dalle potenze occidentali, timorose di vedere espandersi l’influenza dell’URSS nel Medio Oriente e la marina sovietica scorrazzare nel Mediterraneo partendo dai porti egiziani.

Infine la grande rivoluzione dell’Iran degli ayatollah nel 1979 e l’esplosione del fondamentalismo in tutta l’area -da Hamas ai Taleban afghani- che culmina nella metastasi di al-Qa’eda.

Occorre tener presente questo quadro storico per comprendere gli ultimi sviluppi della rivoluzione democratica araba di questi primi mesi del 2011, che corre dal Nord Africa al Golfo Persico passando per Egitto e Siria. Alle masse arabe di questi paesi non bastano più la vecchia retorica del nazionalismo populista, le promesse para-messianiche di un futuro “stato socialista”, o magari dello “stato islamico” realizzatosi solo precariamente in zone bollenti del pianeta (Sudan, Somalia, ex-”Emirato dell’Afghanistan”) o -in forme moderne ma contraddittorie- nell’Iran degli ayatollah. A una a una, sono cadute in Medio Oriente tutte le bandiere ideologiche della seconda metà del ‘900 (nazionalismo, socialismo, islamismo) che avevano alimentato il discorso politico.

La crisi economica mondiale, di cui è stato detto che “se da noi ha abbassato il tenore di vita, nel terzo mondo ha messo in questione la vita stessa” di milioni di individui, ha spazzato via le vecchie ideologie e relative illusioni “organizzate”. Cosa più rimaneva in cui credere? La vecchia tanto bistrattata democrazia liberale! La Turchia, il paese erede dell’ex-impero ottomano, sotto questo aspetto ha fatto da battistrada: l’avvento al potere di un partito demo-islamico moderato, sulla falsariga dei partiti demo-cristiani europei, e il grande successo economico del paese (uno dei grandi competitors globali del prossimo futuro) hanno smosso le acque. Certo, la crisi economica ha agito da detonatore in società in cui decrepiti sistemi di potere autoritario si reggevano solo sulla repressione interna e il tacito appoggio dell’Europa in cambio del controllo dei flussi migratori. Ma la crisi, da sola, non sarebbe bastata, se l’esempio turco non avesse rappresentato per le masse musulmane un modello vincente, una nuova idea in cui credere, una alternativa al presente incancrenito stato di cose.

L’Occidente diviso

Anche l’Occidente è giunto a un bivio: appoggiare, accompagnare la rivoluzione democratica in atto in questi paesi, o cercare di ritardarla, sostenendo a oltranza i regimi pericolanti, magari anche con la politica del “cambiare tutto per non cambiare niente”, di cui già si vede più di un segno nell’Egitto post-Mubarak?

L’Europa che conta si è subito spaccata tra interventisti da un lato (Francia e Gran Bretagna), e attendisti dall’altro (Germania e Russia). Da un lato i paesi di maggiore esperienza coloniale, che riscoprono lo “spirito di Suez” (1956), hanno con istinto sicuro sposato la causa degli insorti: in nome della libertà e della democrazia, s’è detto, ma certamente non solo per questo. E qui si situa il nodo della politica estera italiana in Medio Oriente, da Andreotti a Berlusconi, che ha indubbiamente saputo trarre grandi vantaggi economico-commerciali da una collaudata linea filo-regimi arabi.

Nel giro di un mese però questa politica è finita in un cul de sac: se vincono gli insorti, pagheremo cari riverenze e baciamani a Gheddafi; se quest’ultimo resiste, ci farà pagare il nostro “tradimento”: dopo tutto i bombardieri della coalizione euro-americana decollano da basi italiane... Francesi e inglesi l’hanno capito perfettamente e hanno colto al volo l’occasione: sposando le aspirazioni democratiche degli arabi, dal Maghreb all’Egitto, si stanno posizionando nel modo ottimale per riappropriarsi a danno dell’Italia del proscenio mediterraneo e scalzare magari le nostre imprese che finora, almeno in Libia -che detiene le seconde riserve mondiali di gas e petrolio- la facevano da padrona. L’Italia, per recuperare, dovrebbe proporsi nelle vesti del mediatore, magari agganciando la Germania, tra i paesi interventisti, e le irrequiete tribù di un paese storicamente diviso in tre grandi regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Se poi riuscisse a intrecciare, in questi mesi cruciali, nuove alleanze con i capi delle tribù emergenti, potrebbe anche uscirne bene; lo stesso generoso accordo stipulato dall’Italia di Berlusconi con la Libia di Gheddafi sarà una carta importante da giocare (che infatti il governo italiano ha “sospeso”, ma si è guardato bene dal dichiarare decaduto).

In questo quadro resta ancora relativamente titubante la linea americana: inizialmente interventista, ora più prudente, con la tentazione di smarcarsi dal protagonismo franco-britannico. Sullo sfondo dell’incertezza americana ci sono almeno due grandi questioni: 1. che fare, se la rivolta arriverà in Arabia Saudita, alleato storico degli USA e pilastro dell’Impero nell’area?

2. Cina e Russia, decisamente contrarie per ragioni di realpolitik ad ogni intervento muscolare, sono pronte a sfruttare il minimo errore per (ri)entrare alla grande in Medio Oriente, magari chiamate a gran voce vuoi dai regimi che si sono sentiti traditi dall’Occidente, vuoi dagli stessi insorti, che domani, una volta al potere, potranno dire di non essersi sentiti abbastanza sostenuti.

Ma c’è un altro grande paese che trema in questi mesi: è l’Iran degli ayatollah, percorso da forti istanze democratiche da almeno due anni, a partire dall’ “onda verde” dei giovani iraniani scesi in piazza a milioni per denunciare i brogli elettorali, e poi duramente repressi. Partito con l’idea di esportare la rivoluzione islamica nel mondo arabo e sunnita, l’Iran sciita rischia di ricevere in pieno l’onda d’urto della rivoluzione democratica araba, che potrebbe ora rianimare lo stesso ammaccato movimento democratico del paese.

Come si vede, il “‘48 arabo” sta cambiando il mondo intero. E chi non se ne accorge rischierà non solo di rimanere indietro, ma anche di pagare un conto salato. Cina, Russia, USA e la riedita “alleanza di Suez” anglo-francese si stanno industriando per meglio sfruttare i nuovi scenari che si aprono in Medio Oriente. E c’è un aspetto paradossale in tutto questo: la democrazia, sì, proprio la vecchia democrazia nata dalla rivoluzione francese e da quella americana di fine ‘700, rischia davvero di vincere dappertutto nel mondo islamico, spazzando via autocrati e islamisti barbuti; eppure l’Europa, che si vanta di essere la patria dei diritti e delle libertà, non tifa compatta per questa vittoria. Atteggiamento miope e meschino che potrebbe ridare spazio, e magari una seconda chance, proprio a quei movimenti dell’islamismo militante fondamentalista che oggi la rivoluzione democratica araba ha emarginato e dichiarato obsoleti.