“Noi, primi nel Nordafrica”
Come i tunisini di Trento stanno vivendo la rivolta del loro Paese
Un altro regime è caduto. Un altro popolo ha alzato la testa e ha trovato l’orgoglio di dire basta e di riprendersi la libertà e la democrazia. In cinque settimane di rivolta il popolo tunisino ha demolito il potere di Zine El Abidi Ben Alì (conosciuto come Ben Alì), costringendolo, dopo 23 anni, ad abbandonare la Tunisia.
Il popolo tunisino si è ripreso il potere e ha intenzione di consegnarlo nelle mani di un governo che abbia la sua fiducia, a costo di rifiutare quello di transizione presentato qualche giorno fa, perché ancora troppo intriso di ministri e persone vicine alla vecchia gerarchia.
E parte di questo popolo è sparso per l’Europa: persone che da anni scappano all’estero in cerca di miglior fortuna. L’Italia è il secondo Stato europeo per numero di tunisini presenti sul territorio: la loro percentuale oscilla tra il tre e il quattro per cento sulla popolazione totale. In Trentino se ne contano circa 1.700 e non hanno intenzione di assistere inoperosi alla rivoluzione dei loro connazionali.
Venerdì mattina, durante una conferenza stampa presso la sede della Cgil, la comunità tunisina, tramite il suo portavoce provvisorio Saadi Brahimi ha infatti lanciato “un appello a tutte le associazioni trentine che da sempre si battono per la pace, la giustizia e la libertà, ai partiti amanti della democrazia e alle associazioni dei lavoratori perché sostengano il popolo tunisino e la sua rivoluzione, nata e portata avanti non solo da intellettuali ma soprattutto da giovani, operai, donne, artigiani e agricoltori, e perché facciano pressione sul governo italiano e sull’Unione Europea per la creazione di una commissione europea di garanzia per una transizione democratica, perché la Tunisia in questo momento è a rischio di una guerra civile... e la stabilità politica del Nordafrica è importante anche per l’Europa”.
Tutta la comunità tunisina ha seguito ora per ora l’evoluzione della protesta, tenendosi in contatto con amici e parenti, guardando Al Jazeera da Internet, leggendo i giornali, sognando e lottando assieme ai propri connazionali. Lo si capisce dal tono della voce quando parli con loro, dall’espressione di orgoglio che hanno negli occhi, dalla commozione che traspare dai discorsi, come se ci fossero stati anche loro, lì in mezzo. Gioia e tristezza sono i sentimenti che sottolinea Saadi Brahimi: tristezza per le persone morte (fonti dello Stato tunisino parlano di 260 morti), ma anche una grande gioia per l’avvenimento storico.
M. N. è un ragazzo scappato dal suo Paese perché non ce la faceva più a sopportare la miseria, la mancanza di lavoro e l’assenza di libertà. È arrivato in Italia nel 2007 e in Trentino ci sta da qualche anno. È contento di poter parlare con qualcuno dei giornali di come ha vissuto lui da qui, dal Trentino, la rivoluzione. È talmente impaziente di raccontare che mi investe subito di parole, appena ci sediamo al bar dove ci siamo dati appuntamento. Ma chiede l’anonimato, perché “sai, da noi, in Tunisia, non è come qui. È vero che Ben Alì se n’è andato, ma la situazione non è ancora normalizzata. Se un giorno ho bisogno di una carta, del rinnovo del passaporto o altre cose del genere, dalle ambasciate fanno presto a controllare i nominativi e non vorrei avere problemi per il fatto di essere apparso su un giornale”.
Sei stato attivo politicamente in Tunisia?
“Solo una volta ho partecipato attivamente. Facevo parte di un partito di opposizione. Nessuno della mia famiglia appoggiava Ben Alì. Ma era pericoloso e allora sono uscito dal partito. Tanta gente è finita in carcere per piccolezze. Tutti in Tunisia conoscono di fama il carcere politico “9 aprile”: finire la dentro voleva dire essere picchiato e maltrattato. E tanta gente ci è stata portata dalla polizia. Poi ho deciso di andarmene via, in cerca di lavoro e di libertà. Tutti avevano paura, non si poteva aprire bocca, la polizia poteva trattarti come voleva. Se non avevi gli agganci giusti, non trovavi lavoro o dovevi pagare per poter lavorare. Non è una situazione normale questa. Come si faceva a sopportare ancora?”
Come hai vissuto da qui la protesta?
“Sono orgoglioso di quello che è successo. Ho seguito le notizie tutti i giorni sui giornali arabi, da internet e dalle tv arabe a casa di un amico. Qualche giorno fa su Al Jazeera hanno fatto vedere delle interviste di donne, giovani e studenti che chiedevano libertà e democrazia, ed è stato emozionante. Perché noi non chiediamo altro, vogliamo riprendere ciò che spetta di diritto ad un popolo libero: la possibilità di scegliere democraticamente i nostri rappresentanti. Vogliamo la libertà e la democrazia. Da questo si può ripartire per ricostruire il Paese. Ma, soprattutto, sono orgoglioso che sia stata la Tunisia la prima nel mondo arabo ad alzare la voce e dare il via alla rivolta”
Che poi si è allargata anche ad altri Stati nordafricani...
“Si, ma da loro è diverso. In Algeria, ad esempio, protestano per i prezzi alti, ma noi in Tunisia chiediamo di più, vogliamo uno stato democratico e siamo stati i primi a farlo”.
Mi scappa un mezzo sorriso, ma in fondo provo rispetto per questo scatto genuino di orgoglio nazionale e identitario che forse noi italiani abbiamo un po’ perso.
Un po’ come dire che voi siete l’esempio...
“Sì, negli altri stati potranno imitarci, ma noi rimarremo sempre i primi, quelli che hanno iniziato” ribadisce M., battendosi il pugno sul petto e con un sorriso orgoglioso.
Avresti voluto esserci, partecipare attivamente?
“Che vuoi che ti dica, è andata così, sono qui in Italia, in Trentino, e non posso cambiare la situazione, non posso che essere contento che sia successo. Anche se non capisco perché ci sono voluti ventitré anni per arrivare alla rivolta popolare decisiva. Il gesto di Mohamed Bauzizi (il ragazzo laureato costretto a fare il venditore ambulante per mancanza di lavoro, che dandosi fuoco per protesta davanti al comune di Sidi Bouzid ha dato inizio alle manifestazioni in piazza, n.d.r.) è stato sicuramente sconvolgente: non è facile versarsi una tanica di benzina addosso e poi darsi fuoco con l’accendino, vuol dire che proprio non ce la fai più. La gente ha cercato di fermarlo, ma lui non ha ascoltato. Il popolo è esploso, non ce la faceva proprio più. Da Sidi Bouzid la protesta è subito dilagata in tutto il Paese. Kasserine, la città da dove vengo e che dista circa 25 km, è stata una delle prime ad insorgere. Abbiamo avuto circa 85 morti”.
Adesso com’è la situazione? Cosa dice la tua famiglia?
“Non è ancora sicuro. I miei fratelli e i miei genitori non escono ancora di casa perché hanno paura. Ci sono controlli e posti di blocco per le strade. Ma per fortuna stanno tutti bene”.
Quando eri ancora in Tunisia erano già successi episodi di protesta?
“A Kasserine, nel 1992. Ben Alì era arrivato in elicottero per una visita alla città e alla regione. Stava arrivando a piedi al palazzo della Provincia, lungo la strada c’era tanta polizia e tutta la città era lì. Quando è entrato nella via principale abbiamo cominciato a tirargli pomodori. Ci eravamo organizzati, tutti lanciavano. È arrivata subito una macchina che lo ha riportato all’elicottero pieno di sugo di pomodoro. Non è più tornato a trovarci”.
Torneresti in Tunisia adesso?
“Per ora no. La situazione non è ancora stabile. Meglio aspettare ancora”
La chiacchierata è stata lunga e piacevole. Mentre usciamo dal bar ridendo di Ben Alì e del sugo di pomodoro, gli squilla il telefono. Con apprensione mi dice che è una chiamata dalla Tunisia. Una serie rapida e fitta di battute in arabo, poi chiude il telefono e mi guarda sollevato:”Tutto bene. Era mio fratello che mi chiedeva aiuto per delle questioni burocratiche”.