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Obama e la pax israeliana

Il problema di un presidente stretto fra un alleato indispensabile e un mondo musulmano che non può più ignorare

Netanyahu e Obama

La recente visita ufficiale in Israele del vicepresidente americano Biden e l’ incidente relativo all’annuncio dei nuovi insediamenti israeliani a Gerusalemme Est, hanno messo in evidenza il momento non facile della politica degli USA in Medio Oriente.

Da tempo avevamo segnalato, su questa rivista, l’anacronismo crescente di una politica estera vistosamente e spesso acriticamente filo-israeliana che, almeno dal 2001, è diventata sempre più controproducente. Nel momento in cui gli USA s’imbarcavano nella crociata contro il terrorismo in Irak e in Afghanistan, e in altre guerre non dichiarate ai santuari di al-Qaeda, la necessità di non alienarsi del tutto il mondo musulmano imponeva un atteggiamento di maggiore attenzione al vecchio problema palestinese. La Palestina è notoriamente una “bandiera”: magari i governi arabi non si sono mai sprecati in aiuti ai profughi, ma anche per ragioni di politica interna restano sensibili a tutto ciò che accade da quelle parti; il fondamentalismo, per parte sua, porta da sempre la mancata soluzione della incancrenita questione palestinese a riprova del “complotto sionista-imperialista”. Le dichiarazioni di buona volontà, le missioni diplomatiche per stimolare gli eterni colloqui di pace israelo-palestinesi in verità non sono mancate; ma non occorre molto per rendersi conto che americani e israeliani -nell’inerzia quasi totale degli europei- facevano un po’ il gioco delle parti procrastinando aggiornando demandando a comitati e sotto-comitati internazionali, in sostanza però rimandando sine die ogni soluzione.

Da una parte, quella palestinese, c’è l’evidente debolezza del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen), con cui gli israeliani possono fare il bello e il cattivo tempo; dall’altra ci sono primi ministri israeliani che, come i fatti documentano, non hanno mai bloccato l’espansione degli insediamenti israeliani a Gerusalemme Est, ossia proprio nel territorio che dovrebbe essere la moneta di scambio principale per ottenere la pace. L’ incidente con Biden ha in sostanza messo a nudo la verità: la totale malafede del governo di Netanyahu. Al punto che l’amministrazione USA, in evidente imbarazzo, ha dovuto chiedere spiegazioni, convocare a Washington il primo ministro israeliano per colloqui chiarificatori che hanno in realtà chiarito una cosa sola: Obama non può continuare la politica dei suoi predecessori dell’appoggio a occhi chiusi a un alleato che rischia oggi di compromettere la politica USA nella regione.

Obama aveva aperto la sua presidenza con un famoso discorso di apertura al mondo islamico, solennemente ribadita in una visita al Cairo. Barak Hosseyn Obama, che porta il nome (Hosseyn) di un nipote di Maometto, non può rimetterci la faccia e soprattutto non può mettere a repentaglio la credibilità della nuova politica mediorientale degli USA: questo più o meno il contenuto del suo duro faccia a faccia con Netanyahu. Che Israele sia il fondamentale alleato degli USA nel Medio Oriente, è fuori discussione. Ma l’alleato crea troppi problemi con i musulmani: le minacce continue all’Iran; il caso clamoroso della missione del Mossad a Dubai; violazione continua dei diritti umani nei territori occupati.

Al contempo, com’è noto, la leadership mondiale degli USA ha subito un forte indebolimento sul piano geopolitico, conseguenza della crisi finanziaria che si trascina da due anni e della crescita tumultuosa dei paesi emergenti. Il debito pubblico americano è cresciuto a dismisura, e gli sceicchi sono oggi (con la Cina) i maggiori creditori del tesoro americano. È bastata qualche mese fa la sola minaccia di abbandonare progressivamente il dollaro come moneta di riserva, per far tremare i mercati mondiali. In queste condizioni Obama non può più permettersi di avallare con il silenzio la politica israeliana a Gerusalemme Est, che è un palese schiaffo ai sentimenti di un miliardo e passa di musulmani.

Al tempo del vecchio Arafat, il ritornello della destra israeliana era sempre lo stesso: non si può trattare con un terrorista. Ora Israele ha di fronte il mite Mahmud Abbas: una situazione ideale per trattare, da posizioni di forza, una pace duratura. Ma niente. La realtà è un’altra: Israele non vuole un trattato di pace, non ne ha più bisogno. Con la costruzione del muro ha risolto il problema degli attentati, e ingabbiando Hamas a Gaza ha messo fuori gioco il nemico militarmente più temibile. La pax israeliana  potrebbe andare avanti così all’infinito. Ma non per gli Stati Uniti di Mr. Obama.