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“Abba! Pater!”

Il poema “maledetto” di don Giuseppe Maurina

Quinto Antonelli

Abba! Pater!, opera in versi di don Giuseppe Maurina, edita a Trento nel 1925 e ripubblicata due mesi fa in edizione anastatica, appartiene alla categoria dei libri maledetti.

“Si trattava di un poema epico-didascalico - scrive nella sua autobiografia tutt’ora inedita - che aveva lo scopo di dimostrare l’esistenza di Dio e indirettamente il divino fondamento della religione cristiana. Nella speranza che quest’opera apologetica potesse giovare per la causa della religione, fui preso dalla tentazione di stamparla. Stando alle leggi del diritto canonico avrei dovuto prima di tutto sottoporre il mio libro alla preventiva censura ecclesiastica; ma sapevo già da principio che nel libro facevano capolino certe idee che al censore ecclesiastico sarebbero parse troppo ardite e sarei stato condannato a rifare il mio povero libro prima di ottenere il permesso di stampa. Io ero convinto che quelle certe idee in fondo fossero giuste e d’altra parte un’opera poetica deve portare l’impronta della sincerità. Dunque, dopo aver pregato nella chiesa di S. Pietro di Trento e davanti all’urna di S. Vigilio in Duomo, mi risolsi a varcare col mio manoscritto la soglia della stamperia Scotoni. Finalmente nella primavera del 1925, [...], dopo aver speso Lire 6500 come pagamento anticipato della stampa, furono pronte le prime copie che grazie a Dio andarono a ruba e ben cinquanta copie furono comperate dai chierici del Seminario. Ma sul più bello il mio povero poema fu strangolato dalla Curia di Trento. Chiamato a rendere conto del mio operato, dopo un’ora di discussione su quelle certe ardite opinioni, mi dissero di firmare un decreto di proibizione del libro. Il decreto terminava con una riga di sottomissione. Io dissi al Vicario generale Monsignor Eccheli: Io firmerò nel senso che mi sottometto alle disposizioni disciplinari e, se sarò condannato a gettare nell’Adige le copie non ancora vendute (queste erano circa 900), obbedirò e le getterò nell’Adige; ma riguardo a quelle certe idee sono persuaso che di qui a 50 anni esse avranno libera cittadinanza nel mondo cattolico. Con questa dichiarazione firmai quel decreto e così le 900 copie non ancora vendute (non erano ancora munite di copertina) furono dallo Scotoni, dietro mio ordine, consegnate alla Curia che probabilmente con esse avrà accese per alcuni giorni le sue stufe”.

Chi era l’autore? E quali erano le sue “ardite opinioni”? E perché il poema venne censurato, sequestrato e bruciato?

Dal Seminario al carcere

Don Giuseppe Maurina era nato nel 1872 a Maurina, comune di Spormaggiore, in una povera famiglia di contadini, da cui il padre spesso si allontanava per fare lo spazzacamino e il venditore ambulante. Vivace e intelligente, a 10 anni viene accolto nel Collegio vescovile per seguire gli studi ginnasiali. Qui ha per insegnante don Savino Pedrolli, interessante figura di prete liberale e filo-italiano: sotto il suo influsso - scrive - si predispone a “sentimenti nazionali”.

Entrato in seminario, nel 1894 (a soli 22 anni) è ordinato sacerdote. La sua prima sede è Borgo Valsugana, dove assiste con genuino interesse alla nascita del movimento socialista. Sorprendentemente, nel contesto della Chiesa del Sillabo! Ma povero tra i poveri, si mostrerà sempre sensibile all’utopia di “un nuovo mondo d’eguali - come scriverà nel suo poema - di libere genti / che col martello in mano, / con l’ideale in fronte / delle caste aborrite le inique vetuste muraglie / faran crollare al suono / della tromba di Giosué”.

Nel 1910 diventa parroco di Nave San Rocco.

Quando nella primavera del 1915 si profila l’intervento dell’Italia contro l’Impero austro-ungarico e nel paese fioriscono dicerie, chiacchiere, diffidenze e recriminazioni, don Giuseppe Maurina (è il 22 maggio) invita i parrocchiani a considerare gli italiani piuttosto come propri fratelli (“del resto gli italiani sono nostri fratelli sotto certi riguardi, cioè nella lingua e nella religione e se verranno contro di noi, i poveri soldati italiani verranno in buona fede coll’idea di venire a liberarci”).

Le parole di don Maurina, pronunciate dal pulpito della chiesa, suscitano in alcuni disapprovazione, in tutti disorientamento. Intervengono i gendarmi e in tutta fretta viene arrestato e condotto nelle carceri del Castello del Buonconsiglio. Qui, il primo luglio, davanti al Tribunale militare austriaco è giudicato colpevole “di un’azione di vantaggio per il nemico, pur senza un temporaneo accordo con il nemico stesso e anche se attraverso la medesima azione non sia stato possibile arrecare, in riferimento alle operazioni contro il nemico, un importante danno alle forze militari nazionali”.

Don Giuseppe Maurina viene dunque condannato a cinque anni di carcere duro, aggravato da due digiuni ogni mese.

Il 28 ottobre 1915 è rinchiuso nella prigione-fortezza di Teresienstadt, che lascia nell’agosto 1917 solo in seguito all’amnistia voluta dall’Imperatore Carlo (nel 1925 firmerà il suo Abba! Pater! con lo pseudonimo, del tutto trasparente, di Joe Teresienstadio).

Si reca quindi nel convento agostiniano di Reichersberg e poi nel paese di Riedau, dove passa 11 mesi a dar lezione a ragazzi profughi aspiranti al ginnasio. Qui intraprende quello che nell’autobiografia definisce il suo “sventurato poema”, che continuerà a comporre a Nave San Rocco, una volta ritornato alla fine della guerra.

Da Dio a Darwin

Un’opera ambiziosa e poderosa: 134 canti, 24.000 versi, 400 pagine. Contiene la visione della creazione dell’universo e della redenzione, la sintesi del vecchio e del nuovo Testamento, la storia della Chiesa e delle eresie, le scoperte scientifiche dall’astronomia alla biologia, la storia naturale e la storia dell’uomo sulla Terra. Ad accompagnarlo in questo viaggio di conoscenza (un’affermazione appassionata dell’esistenza di Dio) chiama Dante e, paradossalmente, Lucrezio (proprio lui, il poeta ateo, l’epicureo, l’autore del De rerum natura) e infine Carducci (che appare qui con lo pseudonimo di Enotrio Romano, usato per la prima volta nel 1863 per l’inno A Satana).

Don Maurina è un uomo di larghe vedute, convinto che gli uomini di buona volontà, amanti della verità e della giustizia, quali che siano le loro credenze, sono “anime avviate verso la salvezza”.

Tutti, da Lucrezio a Maometto (il “fiero profeta”, l’autore di “un verbo non vile”) fino a Darwin.

Infatti, non riconoscendo contrasto tra fede e scienza, se Dio è il motore primo dell’universo, questo poi si svilupperà - scrive don Maurina - secondo le leggi dell’evoluzione, così ben individuate da Darwin (il “gran Darvinio”, il “sommo anglico ingegno”).

Un’opera, come si può comprendere, generosa fino alla commozione, ma irrisolta e contraddittoria. E soprattutto inaccettabile da parte della gerarchia ecclesiastica.

Sappiamo già come va a finire. Il 24 maggio 1925 esce sul foglio diocesano il decreto di censura: “Tempo fa è uscita dalla Tipografia Scotoni di Trento una pubblicazione intitolata Abba Pater di un autore che si cela sotto lo pseudonimo di Joe Teresienstadio. Questa pubblicazione ai sensi dei santi canoni si deve ritenere ipso iure proibita. Comunque, contenendo il libro indubbiamente errori ed opinioni contrarie agli insegnamenti della Chiesa, specialmente riguardo alla necessità della fede, all’eternità delle pene e all’interpretazione della Sacra Scrittura, l’Ordinario mediante questo decreto dichiara il libro predetto proibito e condannato. Quindi a tenore del Can. 1398,1 nessun fedele potrà vendere, ritenere, leggere e prestare ad altri il libro in parola. L’autore si è lodevolmente sottomesso”.

Un prete fuori norma

La condanna amareggia profondamente don Maurina. Eppure, seguendo i consigli della Curia, riscrive per ben due volte il poema, cercando di mitigare le sue “ardite” opinioni. Inutilmente.

Nei medesimi anni contrasta come può, con la parola e con l’esempio, il fascismo che sta per diventare regime. Nella sua autobiografia descrive minutamente le squadracce che mettono a soqquadro le sedi dei cattolici e dei socialisti. Protesta. Polemizza con il “Brennero”, un giornale - scrive - che “puzza di prepotenza”; un giornale “noioso perché di solito non parla se non di balilla, avanguardisti, milizie, fasci, piccole italiane, Mussolini, eccetera”.

In una lettera al quotidiano fascista chiede, forse retoricamente o forse no, come mai negli altri stati d’Europa possono vivere ed agire liberamente anche i socialisti e in Italia invece no. I redattori del “Brennero” si saranno messi a ridere, ma intanto don Maurina riceve la visita dei carabinieri che trovano nel suo studio un ritratto del leader socialista Filippo Turati.

Intanto peggiora anche il rapporto con la Curia trentina. Nel 1932 - scrive nella sua autobiografia che proprio in quell’anno assume un andamento diaristico - che se “Rosmini riscontrava nella Chiesa cinque piaghe, purtroppo fra piaghe e piaghette ve ne saranno anche venticinque”.

Nel 1935 la Curia seccamente lo mette a riposo. Scrive don Maurina, citando Giuseppe Giusti: “Il più gran male me l’han fatto i preti / razza maligna e senza discrezione”. Confessa di essere diventato semi-anticlericale. Abbandona Nave San Rocco per la sua Maurina, dove morirà nel 1949.

Un’opera fuori misura e un prete fuori norma. Nelle storie dei cattolici trentini, anche in quelle più recenti, di don Giuseppe Maurina non c’è traccia. E si può capire. Finché si continua a dar fiato alla “Marcia reale” in onore di Degasperi, Endrici e Delugan, come già scriveva Mario Isnenghi per i “Materiali di Lavoro” del 1979, le scelte, le pratiche, i comportamenti dei cattolici trentini (e dei preti) senza potere saranno del tutto ignorati.

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