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QT n. 2, febbraio 2010 Seconda cover

Metti un pomeriggio al centro commerciale...

Quando l’autobus mi scarica davanti all’imponente costruzione del centro commerciale, vengono naturali alla memoria i ricordi del dicembre 2005, a Tallin in Estonia. Capitale divisa tra un’anima medievale che sa molto di Ordine Teutonico e una periferia punteggiata dai grigi palazzi sovietici. Eppure, ciò che in quelle notti di fine anno splendeva su tutta la città era il grande centro commerciale, costruito a ridosso delle antiche mura. Sembrava che tutti, estoni e turisti, vivessero soltanto nello spazio compreso tra le quattro entrate. Fuori, il deserto. Dentro, il mondo. Lo stesso che avrei potuto trovare a Buenos Aires, a Roma, a Mumbay, a Tokyo. Pure i prezzi erano gli stessi. Con buona pace della maggioranza degli estoni, che guardavano le vetrine con occhio lucido e stralunato, mentre i ricchi borghesi baltici e gli annoiati turisti facevano strisciare le loro carte di credito e si portavano via merce. Banalmente, merce.

Il non-luogo

È ancora quella, la merce, che mi viene incontro appena sceso dall’autobus. E intorno le stessi luci di Tallin. E pure le stesse facce stralunate o annoiate. Forse le ragazze sono meno carine, ma è un dettaglio che le luci artificiali riescono a nascondere. Quando le porte scorrevoli mi ingoiano, perdo la cognizione dello spazio e del tempo. L’assenza di riferimenti spazio-temporali è la caratteristica tipica del centro commerciale: lì dentro il cielo non si muove, e tanto basta per toglierti la possibilità di orientarti. Si rimane a vagare tra una vetrina e l’altra, in un labirinto di manichini, macchine fotografiche, scarpe e pizze al taglio, senza rendersi conto se all’esterno sia ancora giorno o se tutto intorno ci siano le Dolomiti oppure il mar Baltico. Per questa ragione il centro commerciale è un non-luogo, la sintesi dei non-luoghi contemporanei, dove non contano le coordinate spaziali, dove non conta la lingua parlata, dove il radicamento è sradicato, dove l’unica identità possibile è il codice Pin del bancomat. Nessuno si chiede chi sei. Pure tu non ti chiedi chi sei. Guardi, ti specchi, palpi tessuti, calzi finte pelli e poi strisci. Oppure te ne vai. Come tutti.

Il non-luogo commerciale stabilisce un’uguaglianza di fondo, perché ciascuno perde la sua faccia, il suo colore e il suo accento. Per lui parla il denaro che per definizione è senza identità. E non è un caso che gli stranieri immigrati preferiscano acquistare nei centri commerciali. Conta senza dubbio il fatto che lì si possa fare indigestione di ricchezza esibita sotto forma di merce e che questa scorpacciata alimenti una (illusoria) speranza di riscatto sociale. Ma conta anche il fatto che nei lunghi corridoi lo straniero e l’indigeno siano uguali, entrambi consumatori. Il capitalismo esibito sembra riuscire dove le politiche sociali hanno fallito, ovvero nell’integrazione completa, nell’annullamento delle differenze, nell’omologazione globale. Perché “per tutto il resto c’è Mastercard”. Il denaro diventa così il salvacondotto per uscire allo scoperto e cancellare l’onta della differenza. In un non-luogo dove non serve altro, poi, il gioco è ancora più semplice. L’identità non è più una faticosa ricerca personale, ma ti viene confezionata ad arte da un mago del marketing. E tu, bianco, ti senti tranquillo, perché anche il nero fa quello che fai tu. Guarda, passeggia sotto le luci artificiali, compra. Una, nessuna e centomila anime a passeggio.

Le voci

Nel non-luogo che anestetizza lo spazio-tempo e annulla le differenze, anche le voci si rincorrono uguali. Mi avvicino alle commesse di qualche negozio e scambio con loro alcune battute. Chiedo loro perché quel mondo sia così popolato, da mattina a sera. Le risposte sono fotocopie sonore: “Si trovano tanti negozi ed è più comodo fare lo shopping. E poi c’è il parcheggio”. Si scopre così che lo shopping diventa una sorta di dovere, per assolvere il quale bisogna scegliere il luogo cosiddetto più comodo perché strabordante di offerte. Eppure, chi avrebbe bisogno di passare tutti i mesi davanti alle vetrine delle giacche a vento o degli orecchini d’oro, prima di riempire il carrello di formaggio e verdura? Nessuno se lo chiede. Ed anche la motivazione del parcheggio lascia perplessi. Andrea se lo ricorda bene lo scorso 23 dicembre, nel parcheggio del centro commerciale di Pergine: “Ci ho messo un’ora, giuro, un’ora per uscire!”. E anche un mercoledì pomeriggio di fine gennaio la situazione non è tanto migliore. Se non fossi venuto in autobus, penso, probabilmente starei ancora girando a vuoto.

Le voci, nel non-luogo, sono quasi tutte femminili. Gli uomini ci sono, ma corrono via senza farsi intervistare, oppure sono troppo impegnati a schiacciare i pulsanti dei video-poker. La voce più graziosa è allora quella di una giovane mamma che sta facendo giocare la sua bambina sulle giostre al centro della piazzetta interna. L’accento di Martina, questo il suo nome, ricorda una provenienza balcanica: “Vengo qua almeno due volte al mese a fare la spesa, perché è coperto e ci sono i giochi per i bambini. E poi mi diverto anche a passare il tempo a guardare le vetrine con le amiche”. Il suo sorriso è disarmante, ma mi chiedo perché per fare giocare i bambini o per stare con le amiche si debba entrare in un non-luogo. Domanda che giro ad un gruppo di ragazzi che, lattina in mano e cappuccio ben calato sulla testa, se ne sta nell’angolo più nascosto di un corridoio secondario. Prima di rispondere si guardano tra loro, finché il “capetto” spara tra i denti: “Perché stare qui è meglio che pestare le merde dei cani in un parco”. Sorrisi tra gli altri. Un altro aggiunge: “E poi qua è caldo e non c’è brutta gente”. Stavolta sono io a sorridere. Mi fa tenerezza ‘sto cucciolo d’uomo che prova a ruggire con un miagolio. Provo a chiedere loro se il centro commerciale li soddisfa come luogo di ritrovo, ma raccolgo solo fiacche smorfie di svacco. Il non-luogo non si cambia, né si ricrea. Si subisce.

Lux fuit

Il ritorno alla luce assomiglia all’uscita di Ulisse dal regno dei morti. Un pallidissimo sole tramonta dietro una montagna che ha un nome e delle coordinate precise: un luogo vero, finalmente. Faccio fatica a riabituarmi allo scorrere del tempo.

Era la prima volta che entravo in un centro commerciale senza la necessità di fare delle compere e dopo il mio vagabondare mi assale la sensazione del nulla. Mi rendo conto che l’avanti e indietro per i corridoi mi ha rintronato, come tanti altri lì dentro. Vetrine ammiccanti per sguardi spenti: potrebbe essere lo slogan del genio del marketing che ci ha reso tutti uguali. Tutti a guardarsi intorno senza vedere nulla. Ciechi e stanchi.