Tre punti di vista
“SLOI / la fabbrica degli invisibili”
- Dopo l’appassionante monologo “Sloi machine” con cui Andrea Brunello aveva proficuamente adattato il teatro civile di Marco Paolini, un film, anzi un documentario sulla “fabbrica della morte” sembrava un’operazione ad alto rischio, di noia e ripetitività. Invece i 57 minuti del lavoro di Katia Bernardi e Luca Bergamaschi convincono appieno, appassionano, commuovono. Il film intreccia tre elementi: filmati e documenti d’epoca, testimonianze dei sopravvissuti, performance di un attore, gli ultimi due ambientati nella livida scenografia della fabbrica cadente del giorno d’oggi. Il mix dei tre momenti ripercorre i 38 anni della fabbrica, nata a supporto dell’industria bellica fascista, prosperata come piccola parte essenziale del boom degli anni ‘60, sempre in totale dispregio della morte che seminava tra i dipendenti; fino alla chiusura con l’esplosione del ‘78, quando le dita della morte si erano allungate sulla città. Il film emoziona; e rende - parziale e tardiva - giustizia ai tanti che soffrirono l’indicibile, malattie negate eppur vergognose, responsabili di una progressiva, devastante perdita dell’equilibrio psichico e di conseguenti disastrati rapporti familiari e sociali. È lo stesso scorrere delle immagini a far sorgere profondi e amarissimi spunti di riflessione: se il fascismo bellico logicamente non si curava della vita umana, come mai altrettanto, anzi, in misura ancor più devastante, non se ne curò, in nome del primato dell’economia, l’Italia democratica del dopoguerra? E oggi, a che punto siamo? (e.p.)
- Il film si inserisce nel filone, ormai piuttosto di moda, del documentario di denuncia post-tragedia e lo fa con una certa retorica raffigurativa di cieli cupi, bei dettagli, carrellate in dolly di ambienti postatomici, elettronici e tetri commenti sonori, nonché con frammenti di docufiction. Alla luce dei fatti riportati il film risulta piuttosto debole nel suo tema centrale, quello della denuncia delle responsabilità di una proprietà interessata al profitto in forme che arrivano ad essere criminali e criminalizzanti. A tratti infatti il film parrebbe avere quasi un sapore consolatorio, di oblio. “Riseppelliamo tutto” - dice tra le lacrime un operaio Sloi. “Voglio solo morire e non soffrire più” dice un altro. Testimonianze toccanti e comprensibili. Ma è giusto fermarsi qui? Resta quindi l’impressione che ci sia come una gran voglia di liquidare la storia operaia di questa città. Ma un frammento colpisce forte, la testimonianza di un ex-operaio che auspica non si presentino più le condizioni e le realtà, “i tempi bui”, che hanno prodotto un caso come quello, riferendosi anche ad un contesto socio-economico che obbligava ad accettare un lavoro in quel luogo. E dunque se un documentario ha senso per la rievocazione di una pagina di storia e se questo ricordo deve restare come memoria collettiva e insegnamento a non ripetere gli stessi errori (cosa della quale per altro c’è sempre più da dubitare), ebbene ci pare che proprio in questa testimonianza esca un monito ben preciso sul presente. Purtroppo però è l’unico. L’unico flebile aggancio al reale. (s.g.)
- Ex operai tornano all’interno alla SLOI. Si guardano intorno smarriti, rivivono un dramma che ancora si portano addosso. Non è più la loro fabbrica. Ma lo è mai stata? È mai stata degli operai una fabbrica che condannava alla malattia chi ci lavorava? Le interviste - spezzettate ma fortemente rispettose - ci restituiscono storie di famiglie distrutte. Il montaggio integra con ritmo e misura il girato e le immagini d’archivio. Oggi quella fabbrica velenosa ospita dei senza tetto. “Diseredati”, dice uno dei testimoni, con compassione e rabbia. Anche loro vittime, anche loro “invisibili”, come correttamente suggerisce il film in una coda che guarda - con rispetto e discrezione, da lontano - questi nuovi abitanti mentre portano nella loro casa piombata la spesa, o dei rametti da bruciare. (a.b.)