Filmfestival della Montagna: qualche (bel) film
Altra buona edizione, la 56ª, firmata da Nichetti: programma vasto, pubblico soddisfatto e in crescita, ottimi eventi speciali. Di seguito, presentiamo alcune delle pellicole più significative.
Un’altra buona edizione, come tutte quelle firmate da Maurizio Nichetti: successo di pubblico, ottimo livello degli eventi speciali, programma vasto e variegato, in grado di offrire a ciascun singolo spettatore la possibilità di scegliere un percorso che privilegi l’etnografia o l’arrampicata, l’avventura o l’impegno.
Partiamo dalla serata inaugurale, che prevedeva la musicazione dal vivo del film muto "Fräuelin Else" (Paul Czinner, Germania, 1928). La trasposizione del racconto di Arthur Schnitzler è delicata, tutta concentrata sulla relazione tra innocenza e vizio, lusso e rinuncia al lusso, capitalismo e fallimento, dramma economico e sacrificio personale: una ragazza, per salvare il padre industriale da un collasso finanziario, è costretta a mostrare il suo corpo nudo a un ricco e morboso uomo d’affari, nella cornice montana e mondana di Saint Mortiz. Praticamente, per una signorina della borghesia d’inizio secolo, una prostituzione, cui è costretta, per salvare il buon nome del padre, da tutta la famiglia. Else accetta il gioco e rilancia: si offre nuda, ma in pubblico, smascherando le voglie del vecchio porco e l’ipocrisia della famiglia e della società; e poi si uccide.
Il film, anche nella sua stessa forma, riesce a dimostrarsi simpatetico rispetto ai sentimenti della protagonista. Ovvero fragile, cristallino, incerto. Ad esempio nella sequenza in cui Elsa segue il miliardario senza avere il coraggio di fermarlo per chiedergli aiuto: come lei, anche la macchina da presa si mostra timida, impaurita, ritrosa, e insieme mobilissima, in cerca di fuga. Concepito nel clima di sbandamento tra le due guerre, dopo il crollo dell’impero austro-ungarico e delle sue certezze, il film non promette un futuro, mostra l’orlo di un baratro.
La musica del gruppo rock dei Marlene Kunz amplifica a dismisura questa atmosfera di sogno e decadenza. Due chitarre, un basso, sintetizzatore, theremin, vocalizzi, creano un ambiente musicale nuovo, perfettamente moderno ma allo stesso tempo rispettoso del clima da cui nasce il film. I Marlene Kunz optano per una rimusicazione pesante, carica, che finisce spesso per aggiungere enfasi: è una colonna sonora rock, anche nei volumi. L’abbinamento funziona. Musica e film, così diversi, si appoggiano e si arricchiscono l’uno con l’altro come in un accordo di metano e di fuoco.
Il vincitore della Genziana d’oro è "Four elements" (Jiska Rickels, Olanda). Il film parte dai quattro elementi per raccontare storie di uomini che su quei quattro elementi lavorano: pompieri in Siberia, pescatori in Alaska, minatori in Germania, astronauti in Kazakistan.
L’assunto di partenza è piuttosto banale ma il film risulta decisamente ben fatto. Il suo pregio maggiore è di concentrarsi prevalentemente sull’attesa – la preparazione al lavoro, le pause, il momento del riposo, quando ci si trova ad avere un vuoto temporale da colmare. Sconta tuttavia il difetto di risultare troppo imitativo di altri film sul lavoro: "Workingman’s Death" (Michael Glawogger, 2005), ad esempio, va anch’esso alla ricerca di professioni estreme, riprendendo dei minatori sottoterra. E lo fa con una potenza espressiva enormemente superiore. I pescatori d’Alaska che calano le nasse per catturare granchi giganti, inoltre, si possono vedere persino in televisione, nei reality-show sulla pesca marchiati Discovery Channel ("The Deadliest Catch" / "Pesca estrema"). Niente di particolarmente originale, quindi, purtroppo.
Altra grande opportunità offerta dal Festival della Montagna è di vedere in anteprima i nuovi film di uno dei grandi protagonisti del cinema contemporaneo: Werner Herzog. "Incontri alla fine del mondo" è una nuova tappa del recente percorso (straordinario) dell’Herzog documentarista, che conserva uno stile unico, tutto suo, e lo abbina a un’infinità varietà di storie. "Incontri alla fine del mondo" è ispirato dalle riprese utilizzate da Herzog per la finzione documentaria "L’ignoto spazio profondo". Sono immagini realizzate sotto i ghiacci della calotta polare. Lo spazio diventa pura astrazione, freddo, colore, fantascienza.
Attratto da queste sequenze, Herzog si reca in Antartide. E lì ha, appunto, una serie di incontri-intervista. Principalmente con scienziati, gente eccentrica che ha scelto di vivere ai confini del mondo e si occupa di foche, pinguini, vulcani, neutrini... E’ splendido il modo con cui Herzog entra in un contatto non scontato con ogni singolo intervistato; e il modo con cui si relaziona con un ambiente così estremo.
Il tema dell’ambiente, della Natura è Il grande tema del cinema di Herzog. Che vede la natura non come un consolante rifugio ma come luogo dove ogni specie si organizza al meglio per uccidere le altre. Un’immagine particolarmente emblematica è quella di un pinguino. Mentre il suo gruppo dei pari si dirige, giustamente, verso l’acqua per andare a pesca e procurarsi il cibo, un pinguino non sembra convinto da questa opzione e si stacca dal gruppo. Rallenta, si guarda intorno dubbioso. Poi prende una strada tutta sua e caracolla verso l’interno, 5000 chilometri di neve e di nulla. A prima vista, fa sorridere. Ma ci pensa poi la voice over di Herzog a ricordarci che quel pinguino si sta dirigendo verso la morte certa.
Il cinema di Herzog vive dunque di contrasti, o, meglio, della incapacità di stabilire se un’azione, una decisione, un principio può essere collocato da una parte o da quella opposta. Si finisce persi come il pinguino: a vagare tra senso delle azioni e il loro non-senso; tra racconto in prima persona e "oggettività" documentaria; tra ironia e sentimento di apocalisse.
Il motore delle città" (di Andrea Fenoglio e Diego Mometti) si inserisce in un progetto più ampio dedicato a uno dei più bei libri di antropologia mai scritti in Italia: "Il mondo dei vinti" di Nuto Revelli.
Le testimonianze registrate su nastro da Revelli per quel saggio fondamentale sullo spopolamento delle montagne sono state digitalizzate. Fenoglio e Mometti scelgono ampi brani audio, li montano. E attorno ad essi selezionano e montano immagini delle montagne del cuneese, oggi. I dialoghi – con una presenza forte, in prima persona, di Nuto Revelli, non percepibile così nettamente nel libro – sono talmente intensi che li si potrebbe ascoltare anche senza immagini, o con uno schermo monocolore come in "Blue" di Derek Jarman. Fenoglio e Mometti sono capaci invece di aggiungere ai dialoghi una visione: riprese meditabonde, lente, spesso fisse, dei luoghi scandagliati da Revelli. Si aggiunge al passato di quelle interviste (gli anni Settanta) uno sguardo che ci mostra le montagne così come sono diventate. Questo nuovo girato, questo presente, finisce per ribadire la forza e la verità delle intuizioni di Revelli.
Il popolare Joe Simpson ("La morte sospesa") ha portato a Trento "The Beckoning Silence", docufiction tratta da un suo libro e affidata alla regia dell’inglese Louise Osmond. Il film racconta di una fallita impresa sulla parete Nord dell’Eiger, nel 1936. Simpson ha il dono di saper raccontare. Di far appassionare alle sue storie la gente che lo ascolta. Di bilanciare in modo intelligente ragione ed emozione, informazione e passione. Simpson ha il solo difetto di essere persino troppo piacione. Il rischio è che "The Beckoning Silence" sembri una puntata extralusso del programma televisivo "Sfide".
I dubbi sull’alpinismo, ma anche la sua ragione d’essere, sono proposti in un’ottica singolarissima in "Blindsight" (di Lucy Walzer, Gran Bretagna): la sfida impossibile di portare sei ragazzini tibetani ciechi su una delle vette a ridosso dell’Everest. Il film rivela senza pudori le perplessità e i conflitti interni al gruppo ("Ma lo facciamo per noi o per loro?... A questo punto, che senso ha?") che desisterà dall’impresa a quattrocento metri dalla vetta, per non lasciare indietro i più deboli. E’ l’eterno tema della "conquista dell’inutile", qui affrontato con particolare sensibilità. E inutile comunque non sarà: un paio d’anni dopo, la troupe ritorna a rintracciare i ragazzini; molti dei quali, acquistata fiducia nei propri mezzi proprio grazie all’impossibile ascensione, hanno saputo trovarsi un posto significativo nella società.
Il tema dell’ecologia torna, inquietante, in "Invisibile" (di Mortimer Roz, Gran Bretagna). Invisibili sono gli inquinanti che, portati da venti e correnti, hanno contaminato il mare Artico, concentrandosi nella microfauna prima, e poi sempre più su nella catena alimentare, fino alle foche e ai narvali; e alle donne Inuit, il cui latte è inquinato all’inverosimile.
E’ a loro che il film dà la parola: le loro ansie per i figli che stanno allevando, la consapevolezza degli immensi rischi, e al contempo l’incapacità di rinunciare a una dieta alimentare secolare.
Fin qui il film è forte e duro, la denuncia arriva come un pugno allo stomaco; poi vi si vogliono aggiungere altri venti minuti di prediche ecologiste, sacrosante ma risapute, e l’attenzione va a quel paese.
Ma un festival serve anche a questo: a far trovare, nel confronto tra le opere e con il pubblico, il giusto equilibrio tra racconto e messaggio.