25 aprile: l’altra Resistenza di Bruno Betta
L’uomo di cultura trentino al centro delle celebrazioni nell’anniversario della Liberazione.
Il prof. Bruno Betta, al quale quest’anno è stato dedicata la celebrazione del 25 aprile, è legato a questa data per la sua biografia, per le sue scelte di vita e il suo modo d’intendere l’impegno civile e di educatore. Chi ha potuto conoscerlo, avendo magari la fortuna di averlo avuto come insegnante, credo possa testimoniare quella particolare disponibilità a relazionarsi ai giovani nel tentativo di trasmettere gli ideali di coerenza morale e di responsabilità indispensabili per vivere la democrazia.
Alla data del 25 aprile egli è però legato anche più direttamente: esattamente 63 anni fa era stato da poco tempo liberato, ma era ancora a Wietzendorf, il villaggio dove si trovava il campo di prigionia per gli ufficiali italiani, a metà strada fra Hannover e Amburgo. Da lì a pochi giorni avrebbe scritto a Ferruccio Parri, diventato Presidente del Consiglio, confermando la propria adesione e quella di altri compagni di prigionia al Partito d’azione.
Due anni dopo è lo stesso Betta che prende la parola alla cerimonia ufficiale per il 25 aprile. Siamo nel 1947 e il suo discorso è di aperta denuncia contro chi si ostina a sottovalutare ed ignorare la resistenza; sia quella degli internati militari in Germania, sia quella di coloro che combatterono per la libertà nelle formazioni partigiane. "La resistenza non è finita, - affermò Betta in quella occasione - un’altra resistenza è cominciata e perdura, e un’altra liberazione è forse necessaria". La diagnosi è implacabile, ma ancora una volta la risposta appare chiara: "Il solo modo che abbiamo di fare qualcosa è ancora di saper mantenere il nostro valore morale, la tempra del carattere, la coscienza di quei valori che abbiamo dimostrato di possedere; è di costruire, per tutti coloro, che attendono dalla libertà la giustizia, una forza che non faccia disperare di tutto e di tutti."
E’ costante il suo richiamo al valore morale della scelta di resistere, di accettare la prigionia e l’internamento piuttosto che dire sì ad Hitler e Mussolini. "Valori morali e patriottici della resistenza in Germania" è ad esempio il titolo della relazione che egli tenne al Congresso nazionale degli ex-IMI nell’aprile del 1950. Il legame fra le ragioni morali e il patriottismo erano stati ulteriormente esplicitati nel discorso del 4 novembre 1948 che ha accompagnato la consegna al Museo del Risorgimento di Trento della bandiera del Comando italiano che sventolava sul pennone del lager di Wietzendorf.
Chi attacca il 25 aprile tenga conto della profondità di queste motivazioni. E’ legittimo discutere e ridiscutere delle vicende storiche, delle forze in campo, dei protagonisti, delle posizioni politico-ideologiche che alimentarono la Resistenza. L’importante è farlo in modo costruttivo. Non stiamo parlando di un singolo fatto, di una pagina ancora da chiarire, ma di un processo storico complessivo e di una data fondante del nostro vivere democratico.
Quest’anno la celebrazione del 25 aprile è stata dedicata a Betta anche per questo motivo. La sua biografia e il modo in cui egli ha testimoniato la sua esperienza resistenziale nei lager nazisti è di per sé stimolo per una riflessione che tocca proprio il senso di questa ricorrenza.
Bruno è nato nel 1908. Ha un fratello che si chiama Nino, anch’egli intellettuale di grande spessore, anche lui internato militare dal 1943 al 1945. I genitori erano due maestri. Abitavano a Rovereto e lì, dopo l’esperienza di profughi durante la grande guerra, i due fratelli furono iscritti al Ginnasio-Liceo. Dopo il liceo, la Statale di Milano. Bruno si iscrisse a filosofia. Conobbe grandi maestri e altrettanto grandi compagni di corso, laureandosi con Piero Martinetti, una delle figure più interessanti della filosofia italiana del Novecento, e uno dei pochi professori universitari (nove in tutta Italia) che non giurarono fedeltà al fascismo e furono quindi allontanati dall’Università.
A 26 anni vinse il concorso alla cattedra di filosofia e di storia, approdando al Liceo Prati di Trento. Siamo nel 1935; l’anno successivo Bruno si sposò con Bice Signorini, da cui ebbe in seguito due figli, Luciano e Alberto.
E’ probabilmente nel corso degli anni ‘30 che egli maturò l’idea di aderire al movimento di "Giustizia e Libertà", aiutato in questo dalle frequentazioni e dagli insegnamenti milanesi, ma anche grazie ai rapporti con gli antifascisti trentini guidati da Giannantonio Manci. In particolare tramite Beppino Disertori.
Betta, che ha firmato più di 200 pubblicazioni, al cruciale decennio 1938-1948 ha dedicato un volume straordinario intitolato "3653 giorni, tra umano e disumano", una rielaborazione della propria vicenda biografica basata su una mole imponente di appunti, lettere e diari. Le riflessioni con le quali Betta commenta lo scorrere di questo intenso decennio, mettono in luce una volta in più la coerenza del suo percorso, dove l’intellettuale, l’uomo di cultura e di scuola è chiamato ad una responsabilità civile precisa. Un ruolo di orientamento nei difficili passaggi, un sostegno nel momento in cui è necessario scegliere.
All’indomani del 25 luglio 1943, giorno in cui cadde Mussolini, Betta viene raggiunto dalla notizia di un suo prossimo richiamo come ufficiale. La destinazione è Bressanone presso il 231° reggimento.
E’ un momento di forte risveglio delle coscienze. I partiti si riorganizzano e sembra che la destituzione di Mussolini lasci presagire qualcosa di positivo. Bruno partecipa a quella fase pubblicando due articoli di fondo sul quotidiano "Il Brennero", che da organo del partito fascista diventa per qualche settimana un laboratorio di discussione. A Bressanone assiste impotente al movimento di truppe tedesche che stanno scendendo in Italia. Gli ordini sono assolutamente vaghi. Si attende qualcosa senza predisporre alcunché.
La mattina del 9 settembre viene imprigionato dai tedeschi. Assiste a quella caccia all’italiano in cui si impegnarono moltissimi civili sudtirolesi. Quasi un’immagine-simbolo di come le politiche di nazionalizzazione del fascismo abbiano favorito l’adesione di molti al nazismo.
Partirono immediatamente per il Brennero: un lunghissimo viaggio sui carri ferroviari (contrassegnati da scritte come "Uomini quaranta, cavalli otto") verso Stablach, Prussia orientale. Per Betta inizia la vita nei lager. Il 18 settembre viene fatto ascoltare ai prigionieri italiani un discorso di Mussolini. La voce del duce "è inconfondibile, ma inaspettatamente priva di mordente, si appella a quella massa di soldati perché ridiventino un esercito nuovo, capace di mantenere fede all’alleato tedesco".
Una decina di giorni dopo ancora in movimento, sui carri bestiame. La nuova destinazione è Deblin in Polonia. I primi tre mesi di internamento, che corrispondono alla permanenza in questo lager, sono caratterizzati dalle continue pressioni della propaganda fascista. Si alternano le minacce e l’imposizione di gravi privazioni, con i tentativi di conquistare "con le buone" il consenso e la disponibilità ad aderire alla Repubblica sociale.
E’ in questo contesto che Betta, intrattenendosi con i compagni di prigionia, coglie la peculiarità dell’esperienza di internamento, cogliendone due aspetti apparentemente contraddittori: da una parte osserva lo sviluppo (quasi l’esplosione) della "coscienza del valore della libertà, della possibilità di discutere di tutto"; dall’altra constata la "generale ignoranza civico-politica" e "l’impreparazione ad assumervi responsabilità, per la ventennale assenza di opportunità". A partire da questa situazione Betta si impegna come educatore, proponendo riflessioni, corsi di studio, conferenze sui temi dove la sua formazione filosofica si riscopre utile.
Sul finire del 1943, la propaganda fascista si attenua e per coloro che scelgono di resistere la situazione peggiora. Nei primi giorni di gennaio del ‘44 c’è un ennesimo trasferimento. Ad ovest, nei territori cechi, destinazione Benjaminovo. In quel campo incontra numerosi trentini, ma anche personaggi di importanza nazionale come il filosofo Enzo Paci e lo scrittore Giovanni Guareschi.
A marzo nuovo trasferimento, sempre verso ovest, in direzione opposta rispetto all’avanzata russa. Il treno passa anche da Berlino: "Chilometri di macerie, un carro armato sventrato con la lunga canna del cannone volta verso il cielo: non una persona che si veda in questo paesaggio infernale! Solo case sventrate, finestre come occhi bui".
Si giunge a Sandbostel. Il lager questa volta è enorme, diviso in settori a seconda delle diverse nazionalità dei prigionieri. Più di 10.000 gli ufficiali italiani. Tra di loro incontra il futuro rettore della Cattolica di Milano Lazzati e un giovane sottotenente, di nome Alessandro Natta, autore di uno dei più significati libri dedicati alla resistenza degli internati, "L’altra resistenza".
A Sandbostel la permanenza di Betta fu lunga: dall’aprile 1944 al gennaio 1945. Fame e noia, attività di studio e momenti in cui la guerra si presenta nei suoi aspetti più insoliti. Betta ricorda l’episodio di un ufficiale italiano uscito di senno: "Girava come un podista, avanti e indietro con il catino che serviva per la sbobba, raccoglieva erbe, in silenzio, innocuo alla maniera degli animali del circo in gabbia, e un giorno facendoci rabbrividire tutti, improvvisamente, incosciente di quel che stava per fare, ha scavalcato il filo con la scritta terribile di morte, ed è sceso nella trincea, sempre con il suo catino in mano, per andare a cogliere dei bei fiori lilla che erano cresciuti in un angolo. Subito molti con significativi gesti invocarono la pietà delle guardie, segnando che era fuori di senno… Le guardie non spararono sul disgraziato ed egli, colti i fiori, risalì sul piazzale e continuò la sua forsennata passeggiata."
Nel campo filtrano le notizie dei vari fronti. Giunge la notizia dello sbarco in Normandia, della battaglia delle Ardenne, delle tappe dell’avanzata sovietica.
All’alba del 29 gennaio 1945, due giorni dopo la liberazione di Auschwitz, inizia il viaggio per l’ultima tappa: il campo di Wietzendorf. Sono gli ultimi mesi, i mesi peggiori sotto ogni aspetto. Cresce la speranza, ma anche la paura. Molte sono le uccisioni gratuite. Le SS impiccano il comandante tedesco del campo, accusato di aver preso contatto con gli inglesi.
Il 14 aprile i prigionieri assistono terrorizzati agli scontri armati tra le forze anglo-americane e i tedeschi. Gli internati vengono usati come scudi umani, molti muoiono proprio in quelle ultime ore. Il 16 giungono infine gli inglesi. Il rimpatrio avviene il 23 agosto 1945, quattro mesi dopo la liberazione. E’ un rimpatrio segnato da due fatti dolorosi: nella notte in cui Betta entra in Italia suo padre muore e il giorno dopo suo figlio, che non lo vedeva da due anni, non lo riconosce e lo guarda a lungo titubante.
Anche la città appare irriconoscibile. Scrive Betta "Era il tardo pomeriggio, il sole di fine agosto era ancora alto. In città la piazza Dante era incredibilmente senza movimento, silenziosa, quasi in modo irreale. Sì che mi sembrava d’essere giunto in una città disabitata. Le rovine parlavano da sé."
Trento, come gran parte d’Italia e d’Europa, era per l’appunto un cumulo di macerie. Il rientro dei soldati, dei prigionieri, aggravò la situazione economica e sociale, facendo crescere la disoccupazione.
Furono mesi e anni difficili. Dalla tragedia di una guerra voluta per imporre il nuovo ordine nazi-fascista emerse un Paese capace di riscattarsi, in grado di crescere democraticamente. Anche l’Europa nel suo insieme ha saputo fare tesoro di quella esperienza.
Impediamo che si affievolisca questa consapevolezza. Facciamolo anche in nome di Bruno Betta, che da uomo di scuola e di cultura ha dedicato grandi energie proprio all’insegnamento dell’educazione civica e della Costituzione.