Quale storia dell’autonomia? / 2
Ottocento anni di rapporti di potere.
Prosegue la sintesi della relazione che Emanuele Curzel ha pre- sentato nel corso di formazione per gli insegnanti di scuola media superiore, volto a “offrire una panoramica sulla storia dell’autonomia regionale, dalle sue origini medioevali fino alle prospettive odierne”. Nella puntata precedente (Quale storia dell’autonomia?/1 QT n° 21) Curzel si è soffermato su questioni di metodo: cosa significa “autonomia”, cosa significa “regione trentina”, se e come si possa considerare la storia portatrice di un senso al quale la situazione politico-istituzionale dovrebbe corrispondere.
Fra le varie possibilità di declinare il tema proposto, seguirò quella più facile: il percorso storico che ha visto la città di Trento (e, in qualche misura, il territorio trentino) godere di una forma di autogoverno rispetto ai poteri universali e alle realtà politiche circostanti. Rimarrà dunque in secondo piano il problema della definizione dei confini regionali e sarà sostanzialmente accantonato il tema della "qualità" dell’autonomia di cui stiamo parlando (se e quanto essa fosse fondata su forme partecipative): l’espressione "autonomia regionale" sarà quindi utilizzato in modo piuttosto generico e discutibile.
Quando l’area trentina diventa "differente" da quelle circostanti? Poco sappiamo per l’età romana; più interessanti, ma frammentarie, le notizie che ci vengono da quella longobarda e franca. Tutte le prospettive storiografiche hanno quindi considerato l’episcopato (che nel 1027 ottenne dall’imperatore le contee di Trento, Bolzano e Venosta) come il protagonista dell’"autonomia" trentina tra XI e XVIII secolo (in positivo o in negativo: i municipalismi preferivano rivolgersi direttamente ad entità superiori, tentando di evitare la mediazione vescovile; nell’Ottocento filotirolesi e filoitaliani considerarono proprio la sovranità/autonomia dell’episcopato responsabile della mancata inclusione del territorio e della sua popolazione in più ampie e organiche patrie).
Per distinguere, all’interno dell’ampio arco cronologico, le fasi più notevoli, mi faccio consigliare da due decani del Capitolo della cattedrale. Uno è Josef Kögl, che nel 1964 pubblicò un ancor utile volume intitolato "La sovranità dei vescovi di Trento e di Bressanone" (c’è anche un sottotitolo: "Diritti derivanti al clero diocesano dalla sua soppressione", perché l’autore cercava di fare in modo, fuori tempo massimo, che lo Stato italiano si facesse carico delle indennità garantite al clero dallo Stato asburgico dopo l’incameramento dei beni e dei diritti del Principato Vescovile). Nel testo del Kögl si trova una proposta di partizione dell’ampia sezione storica in questi termini: la "sovranità documentata" (1004-1218); la "sovranità offuscata" (1218-1418); la "sovranità confederata" (1418-1567); la "sovranità salvaguardata" (1567-1803).
L’altro decano è Sigismondo Manci, che visse l’ultima fase della storia del Principato, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo. Egli, nel momento in cui questo concludeva la sua parabola storica, tra 1802 e 1803, ebbe a scrivere: "Lottò questo Principato ne’ mali e pericoli d’una lunga infanzia rispetto alla quale ci mancan le notizie certe e regolate, finché il Principato giunto dopo il 1400 in mano di grandi e potenti signori arrivò alla virilità, che però fu sempre soggetta ad incomodo e malattia finché dopo il 1500 arivò al colmo di sua robustezza sotto Bernardo Clesio, Cristoforo Madruzzo, Ludovico, e Carlo di quella Famiglia, tutti, e quatro Cardinali di Santa Chiesa, ma l’insano amore di Carlo Emmanuele per la Particella lo avvilì, ed indebolì a segno, che perdete molto di sua forza, e bentosto invecchiò sotto i vecchi cadenti Francesco Alberti, Vittorio Alberti, Gian Michele Conte Spaur, Antonio Domenico Conte Wolchestein, ed il rimbambito Dominico Antonio de’ Conti di Thunn. E’ bensì vero, che si riebbe sotto il Coadiutore Conte Firmian, e diede segni di costanza, robustezza vitale, ed energia sotto Francesco Felice de’ conti Alberti, e Cristoforo Sizzo ma successole Pietro Vigilio de’ Conti Thunn cade in una total inbecilità che degenerò, come ho detto in positivo delirio".
L’individuazione delle fasi della sovranità/autonomia trentina all’interno della compagine imperiale verrà svolta in dialogo critico con queste due testimonianze.
L’episcopato trentino, dall’XI secolo alla metà del XIII, tenne conto del quadro di riferimento costituito dall’Impero, e i vescovi basavano il loro potere sul fatto di esserne inclusi. Ciò non impedì loro, in determinate fasi, di svolgere una politica autonoma rispetto a questo o a quel regnante, né li metteva al riparo da usurpazioni e violenze: ma l’assetto generale era relativamente definito. Mi permetto di includere in questo periodo anche il ventennio durante il quale a Trento governarono podestà imperiali, proprio perché si trattò di una scelta fatta da Federico II; ma il momento in cui il podestà Sodegerio da Tito, dopo la morte dell’imperatore, cercò di esercitare un autonomo potere politico sulla città e sul territorio, fu forse l’unico in cui si andò vicini alla costituzione di uno stato laico nel Trentino medioevale (i motivi del fallimento di tale progetto non sono stati ancora chiariti).
Nella latitanza del potere imperiale, a partire dalla seconda metà del Duecento, iniziò quel periodo che Kögl chiama della "sovranità offuscata" e al quale Manci accenna parlando di "incomodo e malattia", in quanto il principato era in mano di "grandi e potenti signori".
Il potere temporale dei vescovi trentini rischiò più volte di venire travolto dalla nuova potenza egemone nell’area: quella dei conti del Tirolo. La famiglia, che aveva la sua sede presso Merano, ancora nel 1254 possedeva un insieme disorganico di diritti e territori chiamato semplicemente "domino del conte di Tirolo"; ma già nel 1271 l’area, governata da Mainardo II (1259-1295), era diventata "contea e dominio del Tirolo", ed il nome del castello era stato ormai attribuito a uno "Stato di passo" posto sul crinale alpino, teso ad erodere il territorio vescovile o a intervenire direttamente nelle sue vicende. Un capitano tirolese, con compiti di comandante militare, era a Trento per rendere evidente chi fosse il vero padrone; le truppe di Mainardo intervennero in armi contro i vescovi, che finirono più volte in carcere o furono costretti a rimanere per molti anni lontano dalla loro cattedrale. Va peraltro detto che gran parte della società dell’epoca vedeva nel conte del Tirolo chi poteva affrancarla dal governo dei vescovi, promuovere i commerci e le libertà urbane, fare la fortuna delle famiglie nobili che accettavano di allearsi con lui. Quando la situazione si assestò, all’inizio del XIV secolo, si vide chiaramente anche qual era il nuovo confine: l’"episcopato trentino", ossia il territorio soggetto civilmente al vescovo di Trento, si era ridotto alle aree più vicine al capoluogo, a gran parte delle valli di Non e di Sole, alle Giudicarie, alla val di Fiemme e a parte dell’Alta Valsugana, mentre la valle dell’Adige a nord dell’Avisio era ormai sostanzialmente perduta a favore del Tirolo e la Vallagarina era indisponibile, controllata com’era dai Castelbarco.
Un tentativo di restaurazione del potere vescovile su questa base più ristretta ebbe peraltro qualche risultato, e trovò il suo simbolo nell’Aquila di San Venceslao, concessa come stemma nel 1339 da Giovanni, re di Boemia, al vescovo Nicolò da Brno. Quando l’eredità dei discendenti di Mainardo passò agli Asburgo, nel 1363, questi imposero al vescovo Alberto di Ortenburg un trattato (le "compattate"), che, pur riconoscendo a Trento una formale parità di diritti con il Tirolo, lo legava militarmente alla contea. I torbidi che per quasi un secolo connotarono i rapporti tra i vescovi e i dinasti tirolesi (disposti ad accettare le rivendicazioni delle città e del territorio in funzione vescovile) proseguirono peraltro, con alti e bassi, per molti decenni: lo stesso episodio del 1407-09, segno di una tardiva autocoscienza cittadina, si inserisce in questo contesto.
uesta fase va a concludersi nel corso del XV secolo: se ne apre una nuova, che per Manci costituisce il "colmo della robustezza". Fu soprattutto la crescita del potere asburgico a dare solidità, paradossalmente, a quel che rimaneva dell’"autonomia" trentina. La casa d’Austria, che tenne permanentemente la corona universale a partire dal 1438, riconobbe nella permanenza del potere vescovile (adeguatamente condizionato, evidentemente) un valore politico da difendere.
L’equilibrio fu trovato con nuove Compattate (1454) e con il "Libello" del 1511, che volendo evitare ai due episcopati il pagamento di doppie contribuzioni fiscali rendeva, agli occhi dell’amministrazione imperiale, gli episcopati di Trento e di Bressanone una parte del Tirolo. Ma in un certo senso le parti erano persino rovesciate, dato che a Trento, anche prima di Bernardo Clesio, giunsero vescovi che ricoprivano cariche significative dell’organismo imperiale o della curia romana, e che potevano per questo porsi al di sopra delle stesse autorità "regionali" tirolesi.
Ciò si nota anche nelle vertenze che coinvolsero nella seconda metà del Cinquecento i conti del Tirolo (un ramo degli Asburgo distinto da quello imperiale) e i vescovi della "dinastia" dei Madruzzo: quest’ultima garantiva infatti al Principato vescovile una visibilità internazionale tale da ottenere l’appoggio e la difesa di papi e imperatori e rispetto alle pretese delle autorità tirolesi. Kögl, che aveva fatto iniziare (un po’ prematuramente) il periodo della "sovranità confederata" nel 1418, annuncia l’inizio nel 1567 della "sovranità salvaguardata", che a suo dire sarebbe durata fino al 1803.
La prospettiva del Kögl non riconosce quello che è il vero protagonista della fase successiva: lo Stato moderno. Il Manci, che analogamente non vede (né poteva farlo) questo elemento, comprende però che alla metà del Seicento qualcosa era cambiato: con occhi feroci e disincantati vede da allora avanzare un’epoca di "vecchiaia", "rimbambimento", "imbecillità" e "delirio".
E’ l’età in cui cresce la compagine statale austriaca, non più impero disorganico, ma Stato capace – dopo il disastro della Guerra dei Trent’anni – di avviare l’uniformazione della legislazione, delle dogane, della fiscalità, del catasto, delle infrastrutture, della scuola, dell’esercito.
Il processo non poteva che considerare un fastidioso ostacolo l’esistenza stessa del principato vescovile trentino, che invece cercava di conservare le proprie peculiarità (e che per questo era considerato nemico dei commerci, del progresso e della prosperità economica e sociale).
In tale contesto avvenne anche un tentativo di riforma dall’interno, con il coadiutore Leopoldo Ernesto Firmian: episodio interessante di illuminismo cattolico che non valse a ridare linfa a un organismo che i vescovi Cristoforo Sizzo de Noris prima e Pietro Vigilio Thun poi cercarono di vendere all’imperatore in cambio di una pensione annua (di 100.000 fiorini l’uno, di 50.000 fiorini l’altro). Ma l’episcopato trentino non valeva tali cifre.
Quando le potenze che si contendevano l’Europa nei primi anni dell’Ottocento si sedettero intorno ad un tavolo, non ebbero dubbi nel considerare i territori dei principati vescovili come una semplice moneta di scambio.
L’ultimo cancelliere dell’episcopato, Francesco Vigilio Barbacovi, scrisse nel 1824: "[I vescovi] avrebbero perduto più volte senza il patrocinio e l’ajuto del loro possente avvocato, il serenissimo conte del Tirolo, i proprj dominj".
Guardando al percorso storico, l’affermazione sembra più un nostalgico singhiozzo che una fotografia della realtà storica, anche se coglie un punto centrale: non fu mai la forza propria del "Trentino" a garantire al territorio l’autonomia, ma sempre una forza esterna; in alcuni casi furono i poteri universali – imperatori e papi – ad avere i loro interessi nel difendere un potere autonomo sulla via dell’Adige; in altri i contendenti potevano fare dei diritti della Chiesa trentina un punto di forza per contestare le "usurpazioni" altrui.
Solo qualche battuta, colpevolmente breve, sulle vicende ottocentesche. E’ infatti nel XIX secolo che nasce in modo più consapevole la spinta autonomistica, per lo meno nel senso in cui la intendiamo oggi. Il romanticismo soffiò anche nelle valli trentine, facendo ritenere necessaria l’individuazione di quel "noi più grande" del quale si voleva condividere il destino; l’elemento caratterizzante fu individuato (qui come altrove) nella lingua; funzionò da catalizzatore il fatto che all’interno del Land tirolese i due circoli di Trento e di Rovereto non costituissero un’unità amministrativa autonoma, con tutto ciò che ne conseguiva negativamente in merito alle scelte di governo; pur mancando un Trentino vero e proprio, i territori dei due circoli di Trento e Rovereto si avvicinarono agli attuali limiti provinciali.
Ma questo è, evidentemente, un altro capitolo.