Quale storia dell’autonomia? / 3
Gli esiti di un corso per insegnanti sulla storia recente della nostra regione. Molti gli interventi, poco dibattito, sollievi e preoccupazioni su una possibile invadenza della politica.
Del corso sulla storia dell’autonomia per insegnanti di storia, ci siamo già occupati, perché iniziativa importante e al contempo ambigua: in quanto poteva prestarsi a nefaste incursioni della politica nella storia (e nella scuola), da più parti temute. Le note che qui pubblichiamo da una parte tranquillizzano sull’esito del corso; dall’altra illuminano. Vediamo infatti dispiegarsi, a fianco delle altre, l'interpretazione storica del dirigente provinciale, che risulta essere un illuminante esempio di storiografia di regime. Occorrerà dunque vigilare.
I relatori erano: Alfredo Canavero, docente di Storia Contemporanea all'Università Statale di Milano; Emanuele Curzel, insegnante nella scuola superiore; Giuseppe Ferrandi, direttore del Museo Storico in Trento; Alberto Ianes, dottorando all’Università Statale di Milano; Maurizio Gentilini, dell’Istituto Luigi Sturzo di Roma; Mauro Marcantoni, presidente del Nucleo di valutazione della Dirigenza della P.A.T; Sara Lorenzini, ricercatrice di Storia contemporanea all'Università di Trento. (Ettore Paris)
Il corso di formazione per gli insegnanti di scuola media superiore sulla storia dell’autonomia regionale che si è svolto tra novembre e dicembre 2007 ha visto come relatori, oltre al sottoscritto, Alberto Ianes, Giuseppe Ferrandi, Maurizio Gentilini, Sara Lorenzini, Mauro Marcantoni e Alfredo Canavero. Gli iscritti erano più di trenta; di fatto i partecipanti sono stati una ventina, impegnati intensamente in 16 ore di un corso che ha concesso poco respiro, denso com’è stato di contenuti.
Delle due ore introduttive, dedicate alle (eventuali) radici medioevali e moderne dell’autonomia, si è già parlato sui numeri 21 e 22 del 2007 di Questotrentino (Quale storia dell’autonomia?/2 e Quale storia dell’autonomia?/1). Gli interventi successivi sono stati tutti dedicati al secolo XIX e soprattutto al XX, visto in particolari settori (l’economia per Ianes, la Chiesa per Gentilini) o come percorso storico complessivo (ampie sovrapposizioni vi sono state infatti tra gli interventi di Ferrandi, Lorenzini, Marcantoni e Canavero, dai titoli diversi ma dal contenuto simile: ma a mio parere si è trattato di un pregio, non un difetto).
Tentare una sintesi di quanto ascoltato sarebbe cosa lunga e rischierebbe di tradire i contenuti presentati dai singoli relatori. Preferisco dedicare qualche annotazione a quelle che sono apparse, non solo a me, le due questioni più importanti e controverse: i motivi che furono alla base del primo statuto di autonomia (quello nato in seguito agli accordi Degasperi-Gruber) e le cause del suo fallimento, che portò alla riscrittura del 1972.
Detto in altre parole, si tratta di chiedersi perché il Trentino-Alto Adige divenne una regione autonoma, e perché dopo pochissimi anni si sentì la necessità di trasformare la regione in due province altrettanto autonome. Questioni delicate, che hanno a che fare con la fondazione stessa della nostra condizione istituzionale, tanto più importanti quanto più si considera la storia come necessaria e sufficiente a giustificare gli assetti esistenti (ma su questo tema si veda Questotrentino n. 18 del 2006, Non esiste un Trentino eterno). Quasi tutti i relatori si sono soffermati su questi avvenimenti, offendo interpretazioni, come vedremo, non esattamente convergenti.
Pur con diverse sfumature, Ferrandi, Lorenzini e Canavero sono stati concordi nel considerare il patto Degasperi-Gruber come una scelta di alto profilo, permessa e suggerita dal contesto internazionale dell’epoca, compiuta al fine di permettere la stabilizzazione di un’area che aveva vissuto nel trentennio precedente un concentrato di tensioni, violenze ed errori che sembrava promettere ulteriori conflitti. L’autonomia permetteva il mantenimento del confine italiano al Brennero (unica "vittoria" ottenuta dai negoziatori alla conferenza di pace, altrimenti punitiva) e insieme la tutela di una comunità che negli anni precedenti aveva rischiato persino di scomparire (pensiamo alle "opzioni"); l’esistenza di una qualche tradizione di autogoverno del territorio e/o di sentimenti autonomistici in quel particolare momento costituivano delle cause concorrenti, ma non certo quelle decisive.
Il primo statuto non nacque dunque da dinamiche storiche interne alla regione, né grazie all’intervento dell’opinione pubblica dell’epoca (il cui rilievo fu secondario). L’autonomia è stata allora, prima e più che un "riconoscimento" di una qualche tradizione di autogoverno, un compito affidato ad una comunità regionale che doveva dimostrare che una convivenza pacifica, in quest’area, era possibile.
A proposito delle cause del fallimento del primo statuto di autonomia, Ferrandi e Canavero non hanno avuto dubbi nell’indicare la classe dirigente italiana dell’epoca (soprattutto democristiana) come la responsabile della rottura con la SVP; sentendosi (a torto) "guardiana" della minoranza tedesca, tradì lo spirito dell’accordo Degasperi-Gruber e le aspettative stesse dello statista trentino.
Piuttosto diverse le interpretazioni offerte da Mauro Marcantoni, il quale nella sua relazione ha disegnato la parabola delle vicende autonomistiche giungendo fino alla più vicina contemporaneità. A proposito dei fondamenti dell’autonomia, non ha mancato di sottolineare come questi non stiano nell’accordo Degasperi-Gruber, ma come essa sia stata "la risposta ad una vocazione che ha sempre caratterizzato questa terra". E sul fallimento del primo statuto, Marcantoni ha sostenuto che si trattò della conseguenza di un vizio di origine, di un errore di funzionamento insito nel meccanismo stesso, dato che esso permetteva (in teoria, ma nel 1959 ciò avvenne anche in pratica) al gruppo italiano di governare senza quello tedesco. Esso non poteva che essere riformato. Era la costruzione che era sbagliata, non la sua gestione.
Si tratta di prospettive diverse, che avrebbero dovuto essere poste a confronto direttamente. Purtroppo alla densità dei contenuti non ha corrisposto la possibilità di dibatterli (tra i relatori, tra i relatori e i partecipanti, tra i partecipanti stessi). Inoltre va detto che sia le attese "politiche" che erano state caricate sul corso, sia l’oggettiva novità, o forse meglio problematicità, del rapporto tra struttura scolastica e contenuti proposti, avrebbe preteso un confronto nel quale i docenti fossero parte attiva.
Così non è stato: quasi tutti i relatori hanno utilizzato tutto il tempo a loro disposizione, lasciando poco o nulla alle domande dei presenti, mentre l’organizzazione logistica non ha fatto molto per aprire spazi per il dibattito.
Si potrebbe certo replicare che un docente di scuola superiore dovrebbe essere capace anche da solo di recepire impostazioni diverse e di vagliarle con il proprio senso critico. Speriamo però che vengano ancora occasioni di approfondimento e di confronto su questi temi.
Riflessione finale. Si tratta certamente di temi sui quali è importante che le giovani generazioni abbiano delle conoscenze. Ma soprattutto è necessario che ne siano adeguatamente informati coloro che sono chiamati a reggere la cosa pubblica. E non sono certo che i contenuti del corso siano noti nella loro interezza alla classe politica trentina.