Scene da una persecuzione
Rosminiani e antirosminiani in Trentino.
Per molti laici, credenti o no, le scoraggianti procedure della beatificazione bastano a inibire ogni adesione intellettuale e emotiva alla prossima celebrazione di Antonio Rosmini. Se si prende sul serio il processo che si va a concludere, non sono l’altezza morale e la vastità di pensiero del prete roveretano a determinarne l’esito, ma la certificazione finalmente ottenuta di un oscuro miracolo. Perché tante persone d’ingegno si prestino a perpetuare convenzioni così formalistiche e improbabili non capiremo mai: ma non è di questo che vogliamo parlare. Cogliendo l’occasione, tentiamo di rievocare alcuni momenti della lotta che fu condotta, dopo la morte del filosofo, contro i suoi sostenitori.
"Di pari passo con la questione rosminiana in Italia in generale, c’è una questione rosminiana trentina", scrive Severino Vareschi, ad apertura di un’eccellente ricostruzione di queste vicende (si trova in Antonio Rosmini e il suo tempo nel bicentenario della nascita, a cura di Lia de Finis, Trento 1998). Si trattò innanzitutto di un conflitto interno alla Chiesa e al mondo cattolico, ma con implicazioni politiche e culturali la cui rilevanza complessiva non si deve sottovalutare. Riassumiamo il racconto in tre scene drammatiche.
Nella prima c’è un rogo. Luogo, il cortile del palazzo vescovile di Trento; data, il 30 giugno 1863. A bruciare sono le copie affannosamente rastrellate di una fresca riedizione de Le cinque piaghe della santa Chiesa, il saggio attraverso il quale Rosmini proponeva una profonda riforma ecclesiale. Era in corso in quei giorni, nella città del Concilio, una celebrazione del terzo centenario della sua chiusura, cui partecipava una consistente rappresentanza di vescovi, cardinali e alti prelati. A loro era destinata, in primo luogo, la nuova edizione, stampata per iniziativa di un gruppo di roveretani e trentini che aveva alla testa il vicepodestà di Rovereto, Antonio Balista.
Nella stessa occasione l’ala rivoluzionaria del movimento risorgimentale, della quale l’esponente più noto era il solandro Ergisto Bezzi, aveva coltivato il disegno (poi abbandonato) di far esplodere delle bombe "alla Orsini", per richiamare clamorosamente l’attenzione sulla questione trentina che la consacrazione recente dell’Unità italiana aveva lasciato irrisolta. Di tutt’altra ispirazione era l’iniziativa di Balista e di quanti la condividevano: non c’è dubbio tuttavia che di una "bomba", simbolica ma dirompente, si trattasse. Consegnare a quei principi della Chiesa un libro messo all’Indice, fingere con malizia polemica che da quella lettura essi potessero convertirsi ad un ritorno al cristianesimo delle origini, cogliere l’occasione tridentina per rivendicare la grandezza di Rosmini, "affinata dal martirio delle più immeritate persecuzioni": nel gesto generoso era insita una carica di provocazione che non poteva sfuggire nemmeno allo sguardo più benevolo. Le fiamme che purificarono i libri intercettati prima ancora che pervenissero nelle mani dei destinatari riscaldarono ulteriormente l’entusiasmo di un giornalista intransigente, don Giacomo Margotti, autore di un intero libro dedicato alla festa anniversaria.
Alle cinque piaghe della Chiesa denunciate da Rosmini credette di poter contrapporre, parodisticamente, le cinque "piaghe della rivoluzione": il Concilio di Trento intatto dopo tre secoli; l’Episcopato concorde; i sacerdoti obbedienti; il popolo devoto; Pio IX trionfante.
Non era la prima volta che Trento diventava palcoscenico di una ritualità inquietante come il rogo di un libro non conformista. "Un secolo prima era stata bruciata per mano del boia nella piazza del Duomo un’altra opera condannata dall’allora vescovo di Trento Francesco Felice degli Alberti: La Lettera seconda di un Giornalista d’Italia ad un giornalista oltramontano di Girolamo Tartarotti", sottolineava nel 1963 su Studi Trentini di Scienze Storiche Sergio Benvenuti, inserendo l’episodio antirosminiano in "una triste tradizione d’intolleranza religiosa".
Tra gli effetti collaterali, il palesarsi dell’orientamento del vescovo di Trento Riccabona, che definì spregiativamente "un libello" Le cinque piaghe. Ancor più rilevante, sul piano politico, la sua condanna del Messaggiere di Rovereto, il giornale liberale che sosteneva in modo esplicito le idee di riforma rosminiane. La sua lettura fu proibita ai fedeli, mentre i sacerdoti che vi avessero collaborato sarebbero stati sospesi a divinis, si annunciò minacciosamente. Pochi mesi dopo uscì il primo numero de L’eco delle Alpi retiche, che dal gennaio 1866 mutò la testata in La Voce Cattolica: l’importantissima storia della stampa diocesana trentina inizia, non casualmente, nel clima di questo conflitto.
Nella seconda scena assistiamo a una partenza. Essa si svolge nelle strade di Rovereto, da Casa Rosmini alla stazione ferroviaria, un quarto di secolo dopo, il 9 luglio 1888. Così la racconta il giornale subentrato al Messaggiere, Il Raccoglitore, sotto il titolo "Coscienza di popolo": "Chiamiamo con questo nome e colla sicurezza di non errare, la dimostrazione cordialissima ed imponente resa dalla cittadinanza al venerando Francesco Paoli che ieri mattina col cuore stretto abbandonava la casa che fu la culla di Antonio Rosmini per recarsi a vivere sotto un cielo più clemente di questo, ove fra tanti altri guai minaccia di imperversare una procella di carattere religioso, ma sostanzialmente civile. Coscienza di popolo sì; non essendo possibile suscitare con artifici, con preparativi, con seduzioni tanti e così schietti entusiasmi; non essendo possibile il commuovere così profondamente gli animi, strappare il pianto di numerosissime donzelle, di uomini adulti, di vecchi e di bimbi che in quell’esule ottantenne vedevano calpestato il buon senso e la giustizia su cui si fonda il civile consorzio, e con esso lui vedevano dileguarsi l’angelo della carità (…). Coscienza di popolo sì, quella che indusse gli abitanti del Borgo ad improvvisare un copiosissimo getto di fiori mentre il povero vecchio umile e pedestre s’avviava all’esilio…".
Era di pochi mesi prima il decreto della congregazione dell’Inquisizione, denominato Post obitum dalle prime parole del testo latino, approvato il 14 dicembre 1887 e promulgato il 7 marzo 1888. In esso si condannavano quaranta proposizioni tratte dagli scritti di Rosmini, valutate non consone alla verità cattolica. Il vescovo di Trento Valussi, con una lettera pastorale, accolse il decreto pontificio e lo notificò alla diocesi, com’era esplicitamente previsto, chiedendo al clero di sottoscrivere un atto di grata e gioiosa accettazione.
Il Paoli, nato a Pergine, era uno dei primi compagni di Rosmini e uno dei suoi più stretti collaboratori. Impegnato in particolare nell’educazione, dell’amico e maestro aveva scritto una importante biografia. Suo erede anche nel senso legale della parola, aveva voluto l’ampliamento della Casa Natale e dato impulso alla costruzione del monumento voluto dal Municipio. A Rovereto era presenza influente: fu, tra l’altro, presidente dell’Accademia degli Agiati dal 1872 al 1878. Padre Paoli non si rifiutò di obbedire, ma lo fece "puramente e semplicemente", senza aderire alla pretesa che alla docilità si accompagnasse un’ostentazione di letizia. Sul piccolo Bollettino rosminiano da lui redatto, che usciva come inserto del periodico Lagarino, pubblicò anzi gli estratti di alcune testimonianze di ecclesiastici e di laici che esprimevano costernazione per la condanna delle 40 proposizioni e la speranza di un riscatto futuro. "Verrà forse il tempo che si rimetterà in onore le dottrine del Rosmini, e se ne decreterà santa la persona", profetizzava uno di quei testi: "la fede e la carità mi suggeriscono di tacere e adorare".
Questa sottomissione senza abiura non piacque al Vescovo. Nella vertenza disciplinare fu coinvolto il Superiore Generale dell’Istituto della Carità, Luigi Lanzoni, che difese con prudente fermezza la posizione di Paoli: ma la conclusione finale fu l’abbandono da parte della comunità religiosa della Casa di Rovereto e della diocesi nella quale la sua presenza risultava ormai sgradita. Quanto al Lagarino, un giornalino modesto ma significativo come voce di un rosminianesimo popolare, fu anch’esso proibito ai fedeli, com’era accaduto a suo tempo al Messaggiere.
La terza e ultima scena culmina in un’abiura. A pronunciarla fu uno dei più commoventi campioni di questa battaglia ideale, don Giuseppe Pederzolli. Si tratta forse della figura più suggestiva, tra quei preti colti e operosi che nella Rovereto del secondo Ottocento tennero in piedi il Ginnasio, l’Accademia, la Biblioteca, nel suo caso anche il Museo, di cui fu a lungo segretario. Dalle testimonianze di studenti e colleghi emerge soprattutto il profilo di un insegnante appassionato. "Il Pederzolli sa adattarsi alle tenere menti e spezza il pane della scienza in guisa che anche i più deboli di intelletto ponno rispondere alle esigenze della scuola e nelle stesse difficoltà si sentono animati", scrisse il suo collega nel Ginnasio Liceo don Visintainer, sottolineando un atteggiamento pedagogico non comune in un’epoca di grande severità.
Non era forse per vocazione né un filosofo né un teologo, ma in fedeltà a Rosmini si era fatto tenace polemista. Dopo il Post obitum "andò a cercare nelle opere del Rosmini tutti i passi da cui quelle quaranta proposizioni erano state cavate, e li trascrisse fedelmente in calce a ciascheduna di queste", cercando di dimostrare le forzature che stavano alla base della condanna.
Sul suo generoso impegno apologetico si abbatté la riprovazione del vescovo Valussi, contenuta in una nuova lettera pastorale del 16 dicembre 1889, letta in tutte le chiese della diocesi salvo che a Rovereto, per un riguardo paradossale che è anche un’indizio di cattiva coscienza. La sua forzata ritrattazione fu pubblicata il 24 maggio 1890 sul giornale che aveva spesso polemizzato con lui, La Voce Cattolica. "Accetto con mente docile, con cuore sincero il severissimo biasimo da Sua Altezza Ill.ma Rev.ma pubblicamente inflitto contro il mio libro (…); ritratto, ricredo e riprovo le opinioni storte, le proposizioni erronee, le insinuazioni errate da Sua Altezza Ill.ma Rev.ma severissimamente biasimate nella sua Circolare del 16 dicembre 1889 al Clero diocesano". Da allora, scrisse Manfroni commemorandolo nel 1894 presso l’Accademia, don Giuseppe cominciò a morire. Il necrologio conclude con l’auspicio di un trionfo futuro delle dottrine in cui aveva creduto. "E quando quel giorno sarà venuto, esulteranno nella loro tomba le ossa di Don Giuseppe Pederzolli. Exultabunt ossa humiliata!".