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QT n. 22, 19 dicembre 1998 Servizi

“Profilo filosofico di Antonio Rosmini”

Michele Dossi, "Profilo filosofico di Antonio Rosmini" Morcelliana, Brescia, 1998, pp. 350, £40.000

La filosofia di Antonio Rosmini è un edificio immenso ed equilibrato, che poggia sui pilastri della ragione e della fede, e nella visita Michele Dossi ci guida con mano sicura: la gnoseologia, l'etica, la politica, la teologia sono i temi cui è dedicata la sua indagine. Il filosofo roveretano si muove, con la convinzione della certezza, alla ricerca della verità, in confronto e in polemica con l'illuminismo di Voltaire, di Montesquieu, di Rousseau, l'empirismo di Locke, il criticismo di Kant, l'idealismo di Hegel, il socialismo utopistico di Saint Simon.

Il sentimento del lettore, in tempi di nichilismo e di pensiero debole, oscilla fra l'ammirazione e la nostalgia: è un pensiero "verace", quello di Rosmini, che si presenta corazzato contro ogni critica. L'idea dell'essere, oggettiva, universale, innata, è intuita già a diciott'anni passeggiando a Rovereto per via della Terra. La persona umana ("l'atto morale... è tale perché è conforme alla verità") partecipa dell'infinito, si apre alla rivelazione cristiana, e fonda così un'etica percorsa dal pàthos dell'amore universale. La comunità politica è strumento per garantire la fruizione dei beni che gli uomini sono chiamati a godere in famiglia e nel rapporto con Dio. Il pensare teologico, infine, si presenta come logico sviluppo del pensare filosofico, ma approda a un "Maestro" che non si accontenta delle parole del "ragionare", ma esige quelle più impegnative dell'"amare", del "pregare", dell'operare".

Intimidisce persino il lettore moderno, questo pensiero, per un eccesso di sicurezza e di vigore esibiti. Ricordo - ero un giovane studente - i giorni passati a Stresa per condurre una ricerca su un grande poeta del Novecento, Clemente Rebora, e Pier Paolo Ottonello, già allora autorevole studioso, che parlava con pazienza di Rosmini a me, inesperto, durante lunghe passeggiate notturne sul lago. Quel filosofo ottocentesco faceva a me l'impressione di una montagna granitica, compatta, priva di scalfitture: a lui contrapponevo il mio poeta dubbioso e angosciato, dalla parola frantumata, scrittore di Frammenti lirici e di Canti anonimi, compagno più umile, più confortevole, più problematico, sulle strade spezzate e informi del Novecento. E mi domandavo come Rebora avesse potuto, dopo l'esperienza sconvolgente della grande guerra e la conversione al cristianesimo. diventare un prete rosminiano: la mistica fiammeggiante mi sembrava lontana dalla filosofia, ma anche da una teologia impegnata a dimostrare razionalmente l'esistenza di Dio.

Michele Dossi non nasconde i punti critici, ma accompagna Rosmini nella sua ricerca con profonda simpatia, dalle "calde zuffe" giovanili con il maestro di Rovereto, al tentativo fallito di conciliare il papato e il risorgimento italiano, al conflitto con la Chiesa che porterà alla messa all'indice delle "Cinque piaghe", alla malattia finale vissuta a Stresa nell'amicizia con Alessandro Manzoni e Niccolò Tommaseo: un'esistenza orientata alla fedeltà al Vangelo e alla Chiesa. Non so quanto fedele alla storia contraddittoria degli uomini: per Rosmini la Rivoluzione francese produce "erronee massime e costumi disumani, e atrocissime scelleraggini"; la questione sociale è impostata in termini di beneficenza nei confronti delle masse povere; l'assolutizzazione del concetto di proprietà impedisce l'affermazione netta dell'uguaglianza dei diritti fra gli uomini; l'etica risolve i suoi ultimi dilemmi solo in una prospettiva teologica e cristiana. Eppure nell'epoca della Restaurazione, dell'alleanza fra trono e altare, Rosmini propone una rigorosa distinzione tra società politica e società religiosa; affida la missione sociale del Cristianesimo non alla gestione del potere, ma alla testimonianza inerme; suggerisce un approccio etico francescano alla vita e al creato.

Rosmini afferma il valore della laicità, ma non ha piena consapevolezza o forse ne ha paura del processo irreversibile, più profondo, della secolarizzazione, che rende l'uomo adulto nei tempi della modernità, chiamato a vivere nella storia "etsi Deus non daretur", come se Dio non esistesse. Quando il papa Pio VIII lo incita a scrivere perché "per influire utilmente sugli uomini, non rimane oggidì altro mezzo che quello del prenderli colla ragione, e per mezzo di questa condurli alla religione", Antonio Rosmini condivide il dramma del vecchio pontefice, e si impegna nel compito. Ma gli sfugge così il dramma della "morte di Dio", della grazia come dono gratuito e imperscrutabile, della tensione fra l'etica dell'intenzione e l'etica della responsabilità. E' una cultura, il cristianesimo, chiamata a dialogare o a scontrarsi, da potenza a potenza, con le altre culture, che la storia degli uomini produce? O non è piuttosto una fede, sottile, che chiede di essere ospitata nelle culture che si succedono? Anche Rosmini, dopo la scolastica di Tomaso d'Aquino, elabora una filosofia cristiana capace di dare risposte su tutto: ma può esistere una teoria cristiana, specifica e globale, della conoscenza, dell'etica, della politica, della sessualità e della famiglia? Sui guadagni e sulle perdite dei tempi moderni, i cristiani sono chiamati a valutazioni e ad impegni, come ed insieme a tutti gli altri uomini, privi delle garanzie e delle certezze date da una loro cultura.

Esistono un'educazione e una scuola cristiane? Il dibattito in queste ultime settimane, a livello nazionale e locale, dimostra la difficoltà dei cattolici ad accettare, oggi, di essere, finalmente, soltanto testimoni, lievito nella pasta. Rosmini, che resiste alla secolarizzazione, perché ne intuisce i drammi, intravede tuttavia, in qualche momento, che questo sarà il contesto che interpellerà nel futuro il Cristianesimo: nella debolezza "sarà sempre" la sua presenza.

Il punto più alto, e più moderno, lo raggiunge con la scrittura delle "Cinque Piaghe ", in cui l'ansia riformatrice, religiosa, e latamente politica, sottopone a critica la divisione del popolo dal clero, l'insufficiente educazione degli ecclesiastici, l'ambizione secolaresca dei vescovi, la loro nomina abbandonata al potere laicale, la distrazione dei beni della Chiesa dall'aiuto ai poveri. La condanna del libro, nel 1849, e la decisione di sottomettersi "coi sentimenti del figliuolo più devoto ed ubbidiente alla Santa Sede", impediscono forse all'autore di proseguire la ricerca in una direzione più in sintonia con i problemi degli uomini suoi contemporanei.

Il mistero del male nel mondo interroga certo anche Antonio Rosmini: "Frequentissimamente l'uomo virtuoso è appressato; l'ardito, il perfido, lo scaltro, il violento trionfante". La risposta del filosofo non è quella orgogliosa del "tutto è bene", è quella rassicurante, provvidenzialistica, che "tutto serve al bene"; essa è però lontana dalle inquietudini dell'uomo moderno, e che spingono Giacomo Leopardi, suo contemporaneo, a una protesta titanica e altissima. Epicuro, nell'antichità, traeva la conclusione che Dio non esiste, mentre, dopo Auschwitz e l'assassinio degli innocenti, alcuni teologi si azzarderanno a parlare di un Dio fragile e impotente, assente e infelice. Rosmini non entra mai in lite con il suo Dio, non lo contesta, e questo penso riesce inaccettabile all'uomo adulto della modernità. Per lui solo "chi ha collocato il punto fermo su cui puntare sua leva nell'altra vita " ha la possibilità di pensare il male senza disperazione.

Il Rosmini che ci ricorda continuamente e giustamente i limiti della politica, in certi momenti ci avverte anche che "la debolezza è un tratto ineliminabile del Vangelo, che ne preserva e ne esalta la vera grandezza". Sono queste le parole che Michele Dossi ci aiuta a scoprire, più fragili dei solidi pilastri abituali, ma che ce lo rendono più vicino.