All’ombra del capitale umano
Ognuno è imprenditore di se stesso. Parola di Gary Becker.
Scrivere una tesi su un microeconomista sconosciuto ai tuoi stessi compagni di corso, pensare che quell’oscuro tema aggrovigliato tra coefficienti di crescita e grafici a curve non ti servirà a molto nel futuro. "Salve, sono un neolaureato in Scienze Politiche, ma non voglio fare il politico, mi interesso di capitale umano": non è un esordio che suoni come l’anticamera dell’assunzione. E invece un giorno di inizio maggio, un tuo amico ti chiama per comunicarti con affetto materno che gli otto mesi spesi su Gary Becker potrebbero essere utili a qualcosa, perché a Trento ci sarà un Festival in cui... Cose che danno soddisfazione.
Finisce la conversazione. Riesumo la tesi e ne scorro i capitoli. Richiudo subito. Per il ripasso c’è tempo.
Partenza da Roma con treno espresso, la pimpante e semivuota Freccia del Sud, e dopo sosta a Bologna e centotrenta ore, sono a Trento. Mi lascio stupire per l’ennesima volta dalla calma e dall’ordine che regnano in città e che neanche il Festival riesce ad incrinare.
Dopo quattro giorni, ci siamo. La sindrome del rimasto fuori mi porta all’Auditorium con un’abbondante ora di anticipo. Tutto è pronto.
Al momento dell’ultima conferenza sul capitale umano sono già state spese milioni di parole; Becker riesce a condurre una lezione snella che fa chiarezza e ordine sui punti cardine della teoria principe di questa edizione, con uno stile e un tono che realizzano un buon connubio tra approfondimento tecnico e divulgazione per un pubblico non solo di esperti. Detto ciò, trovo sensato affrontare i lati sottaciuti del discorso sul capitale umano, per rintracciarne in qualche modo le zone d’ombra; a fronte, soprattutto, della ricezione entusiasta e incondizionata che il Festival ha riservato a Becker e ai suoi lavori.
Per riconoscere le faglie nel discorso del premio Nobel, basta a mio avviso un po’ di malizia nel leggere i botta e risposta della seconda parte dell’incontro scambiati tra il professore e l’ottima platea.
Alle domande più diverse Becker ha risposto sempre con sicurezza. A chi obiettava che in un mondo di soli high-educated, nessuno lavorerebbe da McDonald’s, Becker ha risposto che il progresso tecnologico si farà carico di eliminare i lavori duri e poco qualificati (risposta che non convince molto se si pensa a lavori "sociali" come le badanti per anziani o alle baby sitter).
A chi chiedeva come può un immigrato sfruttato credere alla narrazione del capitale umano, Becker ha replicato – dichiarandosi ostile alle restrittive leggi statunitensi sull’immigrazione - che in un sistema di mercato competitivo, anche i talenti del migrante saranno riconosciuti.
Infine, contro le insicurezze generate dalla flessibilità, ha proposto mercati del lavoro ancora più aperti: combattere l’alto tasso di uscita dal lavoro con alti tassi di entrata.
L’apparente solidità dei suoi ragionamenti faceva così intravedere se non le prime crepe, almeno i suoi nervi e tendini, fatti di centralità del mercato e uomo imprenditore di se stesso. La teoria del capitale umano non può essere scissa da questi punti, che a loro volta sono inseparabili da quel processo di ridimensionamento del Welfare State avvenuto negli ultimi trent’anni, definito da alcuni neoliberismo, e da altri, post-fordismo.
Becker, infatti, proviene da quella fucina di premi Nobel per l’economia - il dipartimento di economia della University of Chicago - nota ai più come la Scuola di Chicago. Da settant’anni, le sue tre generazioni di economisti (tra i più noti: Milton Friedman, di cui Becker è stato assistente) hanno criticato ogni forma di interventismo statale: dal New Deal degli anni ’30, ai primi segni del Welfare State, alle pretese della War on Poverty di Lyndon Johnson. La loro ricetta per lo sviluppo è sempre consistita nell’estendere la forma del mercato e dell’impresa a settori non economici, compresi lo Stato e l’individuo. Fin qui, le idee sono comuni ad un altro cenacolo di economisti: gli Ordoliberali della Scuola di Friburgo, noti per aver teorizzato l’economia sociale di mercato applicata nella Germania del secondo dopoguerra.
Ma fino a dove estendere il modello economico? Su questa domanda le due scuole divergevano. Gli Ordoliberali promuovevano da un lato la libertà di mercato come principio organizzatore dello Stato, dall’altro politiche per compensare gli effetti disgreganti di un modello di società basato su impresa, concorrenza e individualismo. Di parere opposto i Chicago boys, per i quali il problema non è neanche mai stato posto. Via libera alla concorrenza.
E’ in questo ambiente culturale che, a metà degli anni ’60, Becker e colleghi sviluppano le teorie di cui discutiamo ancora oggi. Sia chiaro: il loro contributo all’economia è innegabile. Grazie a loro, si è smesso di concepire i capitali solo come macchine, strade e cemento. E da qui non si torna più indietro.
Ci sono però anche altre considerazioni, meno economiche, ma altrettanto importanti, che vanno sottolineate. L’essere tutti imprenditori ci proietta in un mondo in cui il conflitto tra operai e padroni finisce per sempre. La lotta di classe svanisce in una comune cooperazione d’impresa, in cui, come recita uno dei tanti motti aziendali, "ciò che è buono per l’azienda è buono per il lavoratore e viceversa". Sull’arena del lavoro non si misurano più due volontà opposte, che aspirano a fini differenti. Tutti gli attori sociali dimorano sotto il cielo della razionalità di mercato.
Non sono un nostalgico degli anni ’60, tanto meno un nostalgico del conflitto in quanto tale, ma ci sono ragioni per dubitare che tanto le discriminazioni di razza e genere, quanto le disuguaglianze economiche all’interno della società e tra nazioni saranno annullate dalla mano invisibile del mercato. Queste disuguaglianze hanno lasciato e continueranno a lasciare ai margini della società chi - per ragioni indipendenti dal suo volere - è sfornito di capitale umano. Brutalmente: i poveri e gli stupidi.
Forse è eccessivo attribuire tali responsabilità teoriche a Becker, ma il fatto è che il suo "uomo imprenditore di se stesso" rappresenta il modello di lavoratore contemporaneo, incarnato dal precario (colui che deve sempre aggiornarsi, stare attento alla salute, fare affidamento su di sé, concentrarsi sulla sua ascesa socio-economica, vivere lo spazio sociale come strumento per i suoi fini). E come tutti i modelli, anche questo delinea chi è fuori e chi è dentro.
Questo asfittico ambiente culturale, tutto schiacciato sull’individuo, è in fondo il trionfo dell’utilitarismo e della logica dello scambio che mi pare aleggiasse sul Festival.
In quei giorni, più di una volta si suggeriva di incitare gli alunni allo studio con l’attrattiva di salari futuri più alti; allo stesso modo, spesso si parlava di appoggio ai migranti perché servono. Che in ogni analisi non si possa prescindere dall’economia, è indubbio; ma allo stesso tempo sarebbe bene non equiparare il giusto e il conveniente.
Da questo punto di vista ho apprezzato molto la conferenza di Umberto Galimberti. Il suo è stato un discorso appassionante, che ha attribuito il prevalere di discorsi utilitaristici (nella sfera politica, come in tutti gli altri ambiti della vita umana) all’eccessivo peso ottenuto dal pensiero calcolante. Rendere giustizia alla profondità del ragionamento richederebbe più di qualche battuta finale; mi limito a degli accenni.
Galimberti ha mostrato due matrici di pensiero: da un lato, il pensiero calcolante, proprio della tecnica, basato sulla essenzialità, e mirante all’efficienza e alla produttività. Dall’altro, l’eccedente e ridondante pensiero della vita. La poesia, le arti in genere, l’amore e tutti i sentimenti, la politica, la libertà appartengono al secondo tipo di pensiero, ma soffrono l’arrembante invasione del primo. Si può parlare dunque di una contrapposizione - sfociata in conflitto dalla nascita del liberalismo settecentesco - tra pensiero calcolante ed umanista.
Allora, nel rispetto di tre secoli di scontri, non dimentichiamo che ci sono due belligeranti. Non servirà a capire dove risiede il giusto, ma almeno lo distingueremo dal conveniente.