A tu per tu coi professori
Un giovane si trova a intervistare premi Nobel e pensatori internazionali: resoconto e riflessioni su un'esperienza (in Italia) molto insolita.
La collarina ufficiale del Festival, naturalmente arancione, terminava con un cartellino giallo che mi accreditava quasi perentorio: "Stampa". L’assoluta serietà del mio pass non era però sufficiente a tranquillizzarmi del tutto. L’accredito, infatti, non mi penzolava sulla pancia solo per garantirmi l’accesso facilitato alle conferenze, così da poterne poi riferire o scrivere, magari proprio su queste pagine. Le mie vesti erano quelle di intervistatore-figurante per un documentario sul Festival, non quindi uditore attento e mimetizzato, bensì improvvisato frontman d’assalto.
La faccenda era stata accuratamente preparata, sotto la guida dei miei datori di lavoro, nelle settimane precedenti l’evento. Il taglio scelto era quello di un giovane neolaureato che approfitta di un uditorio prestigioso per porre delle domande a lui care. Domande sul futuro, per lo più, ma anche sulla meritocrazia, sull’ambiente, sull’innovazione…
Come già detto, la necessità di intervistare, sotto l’obbiettivo delle telecamere, studiosi prestigiosi (alcuni dei quali stranieri) e personalità pubbliche, non mi lasciava – diciamo così – emotivamente indifferente.
Il piano di produzione prevedeva al primo giorno l’intervista a Partha Dasgupta, indiano e docente a Cambridge. Quella che io consideravo una sfortuna - dover rompere il ghiaccio parlando in inglese e per di più con una delle stelle del Festival - si rivelò invece una piacevole sorpresa. Uscito dalla hall del Grand Hotel Trento, il professore indiano, impugnando una valigetta consunta di plastica nera, si è presentato sorridente a tutti i membri della troupe: "Hi! I’m Partha".
Con attenzione ha poi ascoltato le mie tre domande e, dopo avermi risposto, mi ha chiesto se quanto da lui detto fosse stato pertinente, se preferivo girare nuovamente la scena, o se invece era stato in grado di colmare le mia curiosità. Gentile e disponibile. Niente di particolare, verrebbe da dire.
Già, e allora perché mi sono sorpreso? E perché, a posteriori, il fatto di essermi sorpreso mi dà un poco fastidio? Perché, è evidente, in Italia essere trattati con cortesia e con disponibilità non è una cosa scontata. O per lo meno non lo è assolutamente in ambiente accademico.
Gary Becker, Premio Nobel per l’economia, era appena arrivato a Trento e non aveva ancora portato i bagagli nella propria camera quando ci siamo seduti su un divanetto per fare l’intervista.
Angelo Panebianco, a Bologna, voleva accorciare il suo ricevimento settimanale da un’ora a mezz’ora, perché gli studenti gli portavano via troppo tempo. Portare via tempo per cosa? Ah, ci scusi, pensavamo che di lavoro insegnasse all’università. Il problema non è poi neanche l’eventuale tempo perso, e non è nemmeno una questione di età, o di posizione gerarchica. Ho conosciuto dottorandi, assistenti e assegnisti di ricerca che trattavano a pesci in faccia studenti dei quali erano poco più che coetanei. E ho visto arpìe travestite da tutor liquidare a brutto muso matricole alle prime armi, intimidite come Bambi durante il temporale.
Lo so, è sbagliato generalizzare. Ma è sbagliato generalizzare solo sui professori italiani, perché, guarda caso, a generalizzare sulla disponibilità e gentilezza dei professori stranieri ci si azzecca quasi sempre.
Luigi Zingales si è laureato alla Bocconi, ha fatto il dottorato all’MIT, ed ora è docente a Chicago. E’ quindi sì italiano, ma insegna all’estero: ho il 50% delle probabilità che mi vada bene. Lo avvicino nella hall dell’Hotel Trento: "Buongiorno, sto facendo il documentario ufficiale del Festival, è possibile farle qualche domanda?"
"Adesso no, dopo!", e si gira.
"Peccato, ha avuto la meglio il lato oscuro della forza" bisbiglio al nostro fonico.
Incontro nuovamente Zingales nel pomeriggio, per la strada. Sono con la troupe al seguito, provo a cogliere l’occasione: "Mi scusi professore posso rubarle un minuto?"
"Ancora? Adesso no, non vede che sto parlando!?".
Dimostro la mia poca professionalità confidando alla produzione di non volerlo più intervistare e di voler cercare un sostituto. Vengo però bonariamente rimproverato: "Non puoi mica intervistare solo chi ti sta simpatico!".
Lo attendo allora alla Biblioteca Comunale, dove deve terminare la presentazione di un libro con Tabacci e Letta. Lo abbordo all’uscita, e lo interrogo con più cipiglio del solito, cercando di farmi dire proprio quello che voglio sapere. "E’ l’intervista migliore che hai fatto" mi confidano i miei committenti tornando alla base.
Queste poche righe non vogliono dimostrare nulla. Lungi da me sperticarmi in dichiarazioni antropologiche o millantare spericolate analisi sociologiche. Ho voluto però raccontare la mia piccola esperienza personale, esperienza che potrei riassumere così: tra i miei intervistati, se si escludono le opposte eccellenze di Dasgupta e Zingales, la disponibilità manifestata, da italici ed esteri, è stata piuttosto simile. Potrei forse spingermi fino a dire che lo straniero più distaccato è stato comunque un pelo più sorridente del più affabile dei connazionali. Ad onor del vero dovrei poi dire che il Presidente della Provincia Lorenzo Dellai è stato molto disponibile e molto cortese. Lui però è un politico e quindi non conta, per la nostra statistica, s’intende. Queste, comunque, sono sottigliezze.
Ho incontrato però, lo debbo dire, anche un professore italiano atipico. Ho infatti avuto il piacere di passeggiare per le vie del centro con Tullio De Mauro, fine linguista ed ex Ministro dell’Istruzione. L’anziano professore mi ha dedicato più di venti minuti e, in verità, l’incontro è terminato solo perché con la troupe avevamo un altro appuntamento-intervista da onorare. Mi ha parlato in modo affettuoso e saggio, riportandomi ai problemi veri delle persone, lontano dai tecnicismi economici talvolta ascoltati. Quando la passeggiata è finita, per esigenze di regia abbiamo continuato a camminare, così che l’operatore ci potesse riprendere anche di schiena. Dopo una prima battuta sulle esigenze televisive che lo costringevano a camminare ancora, De Mauro, invertendo i ruoli, ha fatto una domanda a me. I microfoni erano spenti, non parlava per comparire: "A Bologna, quanto pagavi d’affitto per la tua stanza?"
"Quattrocento euro" ho sorriso amaro io.
"Vedi – ha continuato serio – tu sei fortunato, la tua famiglia poteva pagare quella cifra per te, però questa è una cosa rara. Dobbiamo intervenire sui prezzi degli affitti, la sinistra deve intervenire sui prezzi degli affitti – lo diceva agitando un pugno in aria – perché questa situazione, oggi, mette a rischio lo stesso diritto all’istruzione. Negli anni ’70 il figlio di un operaio poteva fare l’università che voleva, oggi non è più così, stiamo tornando indietro".
Sembrerebbe interessante. Ma, come ha detto qualcuno, ormai De Mauro è vecchio, è bollito, una bandiera al vento. Certo, può ormai dire tutto quello che vuole, e perde persino tempo con i giovani. Sarà demenza senile.