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QT n. 5, 10 marzo 2007 Monitor

Andrea Castelli: “1950”

Intenso, poetico lavoro di Castelli su storia e memoria, della propria famiglia e della guerra.. L'artista trentino, qui affabulatore originale (rispetto a Marco Paolini) ha raggiunto una piena maturità. Pubblico convinto e commosso.

A. Brodesco & E. Paris

La sala all’inizio si aspetta una comicità da cabaret o, forse meglio, da filodrammatica. Va in continua ricerca della risata, in ispecie di quella facile, che segue le battute in dialetto, perché fa sempre ridere il registro popolano del dialetto in un luogo paludato, il teatro. Ci vuole una quindicina di minuti prima che il pubblico capisca che ridere è un’optional: quello che si svolge è molto più di uno spettacolo tra compaesani; è un racconto agro-dolce, leggero nei toni ma molto intenso, spesso drammatico, nei contenuti. E cambia atteggiamento, segue avvinto e commosso.

Andrea Castelli nel dicembre 1950, all'età di nove mesi e mezzo

Andrea Castelli, in questo suo ultimo spettacolo, “1950”, riesce pienamente nella difficile operazione di narrare la storia della propria famiglia, rendendola un mondo in cui ci si addentra con curiosità, subendone il fascino.

La data da cui prende il titolo il monologo teatrale è quella della nascita dell’attore e autore trentino. La narrazione non parte da quella data, ma ci arriva. Il racconto è infatti quello di una potenziale non-nascita: è lo stupore di essere in vita a far iniziare la cronaca, con continui riferimenti alla casualità – o alla fatalità – degli incontri tra persone, delle piccole circostanze insignificanti che finiscono però per cambiare la vita. Così Castelli ripercorre i vari ostacoli – il caso, le malattie, e poi, soprattutto, la guerra – che avrebbero potuto produrre esiti diversi rispetto alla sua nascita. Ci racconta coincidenze, pericoli, incidenti; e la storia di un quartiere, di una città, della gente che la abitava.

Tutto parte dalla capacità del narratore di restituirci la sua grande capacità di ascolto: ascolto attento delle storie della madre, del padre, degli zii, dei vicini. L’interesse provato in prima persona da chi ha ascoltato quelle storie diventa, poi, voglia di rielaborare quel materiale, per comunicarlo, diffonderlo. E’ così che la rielaborazione si trasforma in affabulazione. Un’affabulazione che convince pienamente, capace com’è di far riprodurre, nella sala gremita del teatro San Marco, la piccola passione dell’incontro tra una voce e un orecchio. Attraverso un dialetto trentino molto dolce, musicale senza essere cantilenante.

Il teatro affabulatorio, portato in auge, e alla grande, da Marco Paolini (e già riproposto in provincia dall’emulo Andrea Brunello con il convincente “Sloi Machine”) trova qui con Castelli un interprete originale. Che, a differenza di tanti altri, si smarca da Paolini accentuando i registri che gli sono più propri, e che padroneggia con esemplare maturità: soprattutto la dolcezza del racconto e la capacità di inserire nei momenti più tesi e commoventi battute tratte dal quotidiano, a significare il valore, la preziosità, della vita della cosiddetta gente comune. Paolini riesce a raccontare in maniera epica la vita di tutti i giorni, Bruce Springsteen a cantare come eroi gli sconfitti e i disperati; Castelli invece si limita (!) a fondere, e mirabilmente, realismo ed elegia; vita spicciola e storia; notazione scettica e valori di fondo (che rimangono, rigorosamente, fuori campo, ma che tutto permeano).

Il testo arriva infatti a toccare tematiche complesse. All’interno della narrazione familiare si incontrano Badoglio, Battisti, l’Alpenvorland, la ritirata di Russia… Tutti eventi e personaggi che perdono la loro impersonalità e diventano vivi, disponibili, come in diretta, al gesto dell’attore.

La narrazione ha quel particolare tipo di grazia che deriva dalla sincerità. Il primo interesse dell’autore sembra infatti quello di rimanere fedele alle storie della sua famiglia. “No podo falsar la storia. Eh!”, ammonisce Castelli quando deve spiegare il perché di una piccola complicazione narrativa (le due nonne, la materna e la paterna, si chiamano con lo stesso nome). E ha ragione, perché alcune delle cose di famiglia risultano tanto più interessanti quanto più precisa è la citazione che se ne fa: certe frasi escono dalla bocca della persona che le ha pronunciate in modo già perfetto. Basta ripeterle come sono. La più bella, quasi uno slogan, è la raccomandazione che fa una madre, nonna di Castelli, a suo figlio, uno zio che va pilota nella Seconda guerra mondiale: “Va pian e vola bass”.

Una delle parti più riuscite di “1950” parla del bombardamento di Trento del 2 settembre 1943. Anche qui, alcune figure trovano una collocazione poetica che le rende, attraverso questa astrazione, splendidamente vive. La prima è quella di un carro di fieno che sarebbe passato sopra il ponte di San Lorenzo nel momento esatto della caduta della bomba. Ma la madre e il padre di Castelli, entrambi testimoni oculari, danno versioni contrastanti sull’effettiva presenza, lì e allora, di quel carretto, che assume la valenza di un simbolo gotico e misterioso. L’altra storia è quella di un bambino rimasto sepolto sotto le macerie, che trova la morte perché non riesce a essere raggiunto in tempo dai soccorsi. Quando il suo corpo viene ritrovato, a mesi di distanza, il suo spirito, nel racconto di Castelli, finisce per acquietarsi, ricongiungendosi a un altro spettro, quello del carrettiere. L’immagine è bellissima. Il carretto del fieno si trasforma – come nel film muto di Victor Sjöström – in un “carretto fantasma” che trasporta, pietoso, le anime dei morti.