“Pasolini prossimo nostro”
Un documentario su un'intervista a Pasolini sul set di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”: un discorso lucido, crudele ed attuale sul sadismo, sull'imbarbarimento dei giovani, sull'opera corruttrice della televisione.
La sala Cuminetti era piena, in occasione dell’ultima puntata della rassegna di documentari “Social Film”. Si proiettava “Pasolini prossimo nostro” di Giuseppe Bertolucci. Il documentario è molto semplice: è il montaggio di una lunga intervista concessa da Pier Paolo Pasolini al giornalista Gideon Bachman, che lo era andato a visitare sul set del suo ultimo film, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, il film maledetto di Pasolini. Giuseppe Bertolucci si limita a raccogliere le parole dello scrittore e regista, mostrando intanto delle inedite foto di scena. Una chiacchierata inizialmente svogliata si trasforma presto in un monologo incredibilmente lucido, spiazzante, crudele; in una dura predica nei confronti di quello che saremmo diventati, cioè nei confronti di quello che siamo noi adesso. Pasolini, come Sade per Pierre Klossowski, è “prossimo nostro”.
“Salò o le 120 giornate di Sodoma” è un’opera sgradevole, studiata per allontanare lo spettatore. Quello che sarebbe rimasto l’ultimo film di Pasolini rifletteva un nuovo pessimismo del suo autore, che nella sua “Abiura della trilogia della vita” scriveva: “La lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza”. Come estremo gesto di ribellione, Pasolini era andato quindi in cerca del marchese De Sade e dei limiti oltre i quali questa falsa tolleranza collassa. E’ in Sade – autore illeggibile, atroce, apparentemente utile solo per segnare un confine, un non plus ultra – che Pasolini rintraccia un’alternativa ribelle al consumismo che coinvolge i corpi nelle logiche di compravendita imposte dal mercato.
Le parole raccolte dall’intervistatore e montate da Bertolucci danno una nuova completezza, e una nuova attualità, all’operazione compiuta da Pasolini su Sade. Il regista esplicita a voce le motivazioni che lo hanno spinto a realizzare quel film. Il sesso di Sade è visto come la metafora di ciò che il potere fa del corpo umano: lo mercifica, gli fa perdere la carica liberatoria che aveva all’interno di una società repressiva. Nella nostra società finto-tollerante, la nuova, presunta libertà sessuale, concessa dall’alto, richiede, dal basso, un adeguamento a quel tipo di libertà e a quella soltanto. Poiché è concessa, diventa obbligatoria. Di qui la potenza omologatrice e consumistica di questa che non è già più “libertà”. Invece che una liberazione, abbiamo davanti un’ennesima ossessione. La coppia si trasforma in un incubo.
Pasolini se la prende con i giovani, che indossano abiti che sono come bandiere, ideologie, e non se ne accorgono. Del bambino di Ninetto Davoli dice: “Mi vengono le lacrime agli occhi per la pietà per il suo futuro”. L’intervistatore chiede a Pasolini se non c’è davvero più nessuna speranza. E lui dà una risposta che fa ridere amaramente l’auditorio della Pasinetti: “La speranza è una cosa orrenda inventata dai partiti per tener buoni i loro iscritti”.
Nel suo discorso sul mutamento antropologico dei giovani italiani, già trent’anni fa Pasolini chiamava in causa la televisione, accusandola di aver creato una generazione di “schizzinosi, complessati, razzisti borghesucci di seconda serie”. Viene voglia di seguire il filo di un ragionamento, collegando la nostra televisione, questi “nuovi” ammonimenti di Pasolini e il marchese De Sade. Perché la nostra televisione, oggi, è intasata di reality show a sfondo sadico. La tivù, come spesso accade, ha fagocitato la superficie del discorso di chi voleva opporsi al suo conformismo. Lo spettatore-voyeur ha imparato a mangiare tranquillo i popcorn di fronte alle torture televisive de “L’isola dei famosi”, a quelle scenografiche di “Apocalypto”, e persino alle torture reali di Abu Ghraib. Ma davanti al Pasolini di “Salò” ha ancora un moto di repulsione. In “Salò” il sadismo fa male, come deve essere.
Se il sadismo “autentico” di Pasolini, fedele allo spirito del marchese, continua a essere inguardabile, oggi la sua versione televisiva, softcore e fictionalizzata, è usata come strumento per innalzare l’audience. La tivù assimila Sade, ci gioca, e la carica eversiva del libertino francese si perde in un discorso auto-referenziale, interrotto dalla pubblicità. E infatti l’interesse di Pasolini, più che nel legame tra fascismo repubblichino e sadismo, si rivolgeva proprio all’isolamento dal mondo di un’ideologia (il fascismo a Salò, il sadismo nel castello delle 120 giornate), alla sua deriva pragmatica in una superficie priva di pensiero. Il reality sadico conosce questo stesso scollamento in cui la forma, il comportamento, la prassi, annullano la sostanza, il sadismo, e lo giustificano con rassicuranti commenti del conduttore in studio. Il “Salò” di Pasolini rimane così, oltre al resto, un inno di resistenza a una televisione onnivora che si isola e si celebra come il vizio a Sodoma.