Foibe: confini e orizzonti del ricordo
Diario pubblico di una commemorazione.
Ricorro al diario in pubblico per render conto ai lettori (e a me stesso) della complessità delle questioni che si pongono concretamente nella politica della memoria.
Sabato 10 febbraio, ore 11. La manifestazione ufficiale del “Giorno del ricordo” si conclude in Largo vittime delle foibe: denominazione recente, escogitata per rappresentare in un luogo urbano centrale una tragedia nazionale a lungo relegata nell’ombra.
L’intitolazione è un innegabile successo della campagna condotta in tutta Italia da Alleanza Nazionale, che ha suscitato forti contrasti ma anche un dibattito straordinariamente capillare. A Rovereto l’iniziativa di AN sul tema fu presentata in Consiglio comunale più di dieci anni fa e fu approvata dopo una discussione molto seria, stimolando poi una risposta particolarmente costruttiva da parte del Museo della Guerra. Le iniziative realizzate allora (gli atti del bel ciclo di conferenze si leggono negli “Annali” del Museo 1996/1997), indicarono anche sul piano del metodo una strada feconda, intrecciando storia e memoria. Fu anche l’occasione per una visibilità di tipo nuovo degli esuli istriani e dalmati, che non eravamo abituati a riconoscere come tali anche quando vi eravamo vissuti accanto.
Rivedo in piazza alcuni dei volti conosciuti allora. A quello dai tratti gentili di una signora associo subito la sua fotografia di bambina, divenuta icona della mostra, con il bel viso teso e pensieroso mentre regge a due mani una borsa con la scritta “esule giuliana”. Stamane porta sul petto, come altri con lei disposti in prima fila, la medaglia ricevuta ieri in ricordo del padre perduto in quel vortice oscuro.
Il piccolo rito della deposizione delle corone è scandito da comandi militari (“attenti”, “riposo”), per voce di un responsabile delle associazioni d’arma: suoni enfatizzati e sincopati come vuole uno stile sempre uguale a se stesso e sempre incapace, mi pare, di interpretare il contenuto eminentemente civile dell’atto commemorativo. L’annotazione vale anche per le manifestazioni annuali del 4 novembre, ma in quel caso l’esercito può rivendicare una sua centralità. Nella giornata del 27 gennaio, di fronte al monumento che ricorda la prigionia dei soldati di un esercito sfasciato, e ancor più qui, questi gesti irrigiditi mi sembrano spaesanti.
Il sindaco Valduga sta concludendo il suo commosso intervento quando irrompono la voce e gli striscioni della pattuglia dei contestatori. Dal megafono Massimo Passamani intima a tutti noi la vergogna di equiparare le foibe con i crimini del fascismo e rivendica le moltitudini di altre vittime dimenticate, in particolare quelle del colonialismo. Risuonano nomi che non ci sono ignoti, quelli degli storici che hanno svelato ad un’opinione pubblica riluttante le atrocità commesse dall’Italia in Libia e in Etiopia. Temi veri, per chi cercasse un dibattito vero: ma far urlare altri crimini, se si vuole anche più ripugnanti, per sormontare quelli che qui si ricordano nega di fatto la dignità del ricordo e la consapevolezza critica di questa specifica tragedia della storia.
Provo a dirlo quando tocca a me parlare, in rappresentanza del Consiglio comunale, ma anche a titolo di una lunga consuetudine con il lavoro culturale intorno alle memorie. Di fronte ho gli sguardi turbati di quei testimoni che sentono negata alla radice la loro testimonianza. Quello che preme non è disegnare uno schema interpretativo corretto, ma piuttosto smontare quel ricatto. Contrastare la rimozione del patrimonio collettivo contenuto in quelle memorie, richiamare la loro capacità di inquietare, di scuotere giustificazionismi sempre pronti. Il centrato intervento di Margherita Cogo ha nominato tuttavia con un enigmatico eufemismo gli attori delle violenze che siamo qui a ricordare: gli odi nazionali, e fin qui d’accordo, e un imprecisato “realismo politico”.
Mi sembra doveroso sottolineare ulteriormente le responsabilità della logica nazionalistica, che nella diversità linguistica o etnica vede un nemico da dominare, incapace perfino di pensare una convivenza di uguali diritti; e tirare in campo senza infingimenti le modalità di costruzione del comunismo in Jugoslavia, certo condizionate da una congiuntura storica terribile come quella dell’occupazione nazifascista. Ragionamenti più evocati che espressi, alla fine. Collegare in un circuito conoscitivo vitalità della memoria e tensione alla critica storica non si può fare che attraverso un complesso percorso collettivo, nel quale il ruolo delle istituzioni culturali diventa decisivo.
Domenica 11. Capisco subito, sfogliando i giornali locali, che dovrò impiegare qualche energia supplementare a farmi capire da chi troverà semplicistiche e peggio le mie rapide riflessioni. I cronisti presenti registrano con trasparente benevolenza il mio intervento, sottolineando quasi con sorpresa il passaggio sul comunismo jugoslavo, fino a farlo diventare chiave interpretativa pressoché unica. La previsione non richiedeva virtù profetiche: subito dopo pranzo mi parla a lungo, al telefono, un’amica che non vuol farmi nessuna lezione o censura, ma comunicarmi il suo disagio. A. è di famiglia istriana, ma di un filone antifascista e di sinistra che non si riconosce nella lettura prevalente della vicenda delle foibe e dell’esodo. Sente come un’ingiustizia l’imputazione unilaterale delle responsabilità e vive come un affronto anche personale, oltre che politico, il lugubre revival fascista della sera, con profusione di saluti romani e ritualità necrofile.
Ricevo anche due mail di consenso affettuoso, da parte di persone amiche con le quali non ho occasione di parlare spesso di argomenti come questi. Forzandone la dimensione privata, stralcio qualche riga da quella intensissima di F., anche come documento di un approccio metastorico: “Fascisti, antifascisti, comunisti: che senso hanno tutte queste connotazioni? Ovvero ce l’hanno, sicuramente, per la ‘memoria storica’: ma le persone morte atrocemente, disperse, profughe? Esseri umani su cui oggi si specula con manifestazioni pseudo-politiche? Ho anche una cara Amica di gioventù, figlia di profughi, che ricorda con dolore le sventure di chi l’ha preceduta nel grande Silenzio... e mi sono un po’ documentata, ad esempio avendo letto con pena (…) le pagine di Bora (Anna Maria Mori e Nelida Milani - ed. Frassinelli, 2005): un dialogo sofferto e struggente. La vita del mondo è sommersa da violenze, genocidi, guerre... alla mia età, non importa quasi più conoscerne le origini (…) resta solo tutto il sangue e la morte sparsi ovunque, insieme alle becere manifestazioni di piazza. Di qualsiasi piazza. Perdona lo sfogo”.
Mercoledì 13. Ho captato da segnali trasversi che perplessità e critiche serpeggiano tra le persone che ho più vicine nell’impegno politico. In margine a un appuntamento comune slittato, B. mi scrive oggi: “Ti avrei parlato delle foibe, e di come si sia diffusa, ancora una volta, una informazione di intollerabile semplificazione. Di tutto quello che ho letto mi ritrovo nel Collotti del “Manifesto” dell’11. Sto seriamente pensando di denunciare quelli del saluto romano”.
B. non è il solo a parlarmi dell’articolo di Enzo Collotti, che è uno dei più rigorosi storici italiani, studioso anche nello specifico delle vicende del Litorale Adriatico negli anni che qui ci interessano, nonché dell’occupazione germanica e della politica di potenza del fascismo. La sua è una critica severa agli esiti connaturati con l’istituzione del giorno del ricordo, che gli appaiono testimoniati anche dall’intervento del presidente della Repubblica, che “si è sentito il dovere di enfatizzare una retorica che non contribuisce ad alcuna lettura critica del passato, l’unica che possa servire ad elevare il nostro senso civile, ma che alimenta ulteriormente il vittimismo nazionale”.
“Nella storia non vi sono scorciatoie per amputare frammenti di verità, mezze verità, estraendole da un complesso di eventi in cui si intrecciano le ragioni e le sofferenze di molti soggetti”, scrive Collotti, riconducendo il tema delle foibe ai drammi che hanno lacerato l’Europa e il mondo dalla prima guerra mondiale, “nei quali il fascismo ha trascinato, da protagonista non da vittima, il nostro paese”.
La conclusione apre verso una prospettiva più ampia che forse non sarà impossibile percorrere: “La storia della società italiana dopo il fascismo non è fatta solo dal silenzio (vero o supposto) sulle foibe, è fatta di molti silenzi e di molte rimozioni. Soltanto uno sforzo di riflessione complessivo, mentre tutti si riempiono la bocca d’Europa, potrà farci uscire dal nostro nazionalismo e dal nostro esasperato provincialismo.”
Domenica 17. Sembra rilanciare in positivo questa conclusione Michele Sarfatti, intervenendo sull’Unità (“Memoria e polpette avvelenate”). Direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, Sarfatti è studioso degli ebrei sotto il fascismo e della Shoah, un autorevole “addetto ai lavori”. Della legge istitutiva del giorno del ricordo del 10 febbraio dice che “mentre afferma di voler alleviare un dolore attraverso la sua condivisione, in realtà rinnova il clima che ad esso dette origine, incitando gli italiani a ignorare le criminali violenze fasciste che ‘chiamarono’ le criminali violenze opposte”.
Sul come disinnescare il veleno, indica sia una precauzione metodologica che una proposta utopistica ma perseguibile, quando la nuova Europa alimentasse vere trasformazioni culturali. La precauzione, che è insieme un’esigenza morale, è quella di evitare di opporre vittime a vittime, rendendo loro uguale dignità. La proposta è quella “di un giorno transnazionale unico, nel quale ricordare insieme le vittime ‘nazionali’ e ‘nemiche’ di qua e di là dal mare, dalle Alpi allo Ionio. (…) Francesi e tedeschi stanno lavorando, tra mille problemi, a un manuale scolastico di storia unitario. Noi adriatici potremmo sforzarci di unire almeno il giorno della consapevolezza del nostro passato confinario e del ricordo delle nostre vittime?”