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La memoria ritrovata

... anche se scomoda: di quando siamo stati noi gli oppressori. L’italianizzazione forzata degli sloveni giuliani.

"Omuncoli impastati di odio, di rancore, di livore settario [...] un groviglio immondo di rettili umani striscianti nell’ombra nel fango al di qua e al di là del confine, sempre pronti a mordere e avvelenare [...]." Parola di Pubblico ministero fascista.

Il 2 dicembre 1941 iniziò in una Trieste blindata da camicie nere e forze dell’ordine il processo davanti al Tribunale speciale per la difesa dello Stato contro sessanta cittadini italiani di nazionalità slovena.

Pesantissime le accuse contro gli "omuncoli impastati di odio", che andavano dalla diffusione di stampa clandestina e propaganda politica alla partecipazione ad associazioni tendenti a commettere attentati contro l’integrità e l’unità dello Stato, sabotaggi di opere militari, spionaggio politico e militare, devastazioni, stragi e insurrezioni contro i poteri dello Stato.

Marta Verginella, docente all’Università di Lubiana, parte da qui, da questo processo monstre per ricostruire nel suo libro "Il confine degli altri" un ventennio di italianizzazione fascista e la resistenza ad essa nei territori annessi all’Italia dopo il trattato di Rapallo del 1920.

Secondo l’autrice il processo di Trieste sancì uno spartiacque politico importante anche per il futuro dell’atteggiamento delle popolazioni slovene nei confronti della questione giuliana: decapitata un’intera classe di ispirazione liberale, "la repressione fascista – scrive Marta Verginella – spianava la strada a nuovi soggetti politici che potevano avvalersi del consenso di massa in una lotta che non prevedeva alcuna pacificazione." E che portò molti esponenti del mondo intellettuale della minoranza slovena da una sostanziale lealtà allo Stato italiano in un contesto multietnico all’adesione all’irredentismo, spinti in questo dal maturare della convinzione che l’Italia non avrebbe mai garantito i loro diritti in quanto nazionalità.

Punti di vista. Il punto di vista adottato in questo piccolo ma importante libro dal tono posato e che rifugge da qualsiasi eccesso polemico, è quello della minoranza slovena. L’angolatura scelta dall’autrice è dettata "dai percorsi biografici di intellettuali, politici, commercianti, avvocati, maestre, scrittori e gente comune che ci aiutano a delineare i contorni di una società, troppo spesso vista dall’esterno come uniforme quando invece al suo interno si articola in una moltitudine di attori sociali e politici."

Boris Pahor

Un approccio che – come sottolineato da Enzo Collotti nella sua recensione al libro su il Manifesto – non si basa sui canoni della storia politica, ma privilegia fonti autobiografiche e memorialistiche. E’ il caso per esempio dei testi di Boris Pahor, triestino di lingua slovena, partigiano antifascista, poi deportato nei campi di concentramento in Francia e Germania. Le sue novelle sugli anni bui del fascismo a Trieste, "Il rogo nel porto" (2001) sono state pubblicate dalla casa editrice trentina Nicolodi: in una di esse Pahor descrive la reazione della popolazione slovena all’assassinio da parte delle squadracce fasciste del compositore e maestro di canto goriziano Lojze Bratuz, esponente cattolico, colpevole di comporre nella sua lingua madre.

"E chi l’indomani entrò nel cimitero poté vedere da lontano l’uomo che piantonava la tomba proibita. Poté, però, vedere anche una montagna di fiori su quella tomba [...]. Ma i fiori ed i mazzi facevano pensare ad un mucchio di sassi, oppure ad una catasta di legna, perché erano stati gettati dal di là del muro, alla rinfusa, di nascosto, da lontano come cose gettate ad un lebbroso".

Processo a una comunità. Tra gli imputati del processo di Trieste c’è anche un cristiano-sociale, anche se in maggioranza essi sono liberali e comunisti. Dagli atti processuali si desume che 15 degli arrestati erano contadini, 14 operai o artigiani, 3 commercianti, 18 professionisti, mentre 10 erano studenti: per eterogeneità dell’appartenenza sociale e geografica gli imputati riflettevano la stratificazione e il radicamento della minoranza slovena giuliana.

Erano accusati dal fascismo di mirare all’instaurazione di una "Repubblica sloveno-sovietica, che riunisse tutte le minoranze della Venezia Giulia", ma in realtà soltanto una parte di coloro che finirono alla sbarra – ci spiega Marta Verginella – appartenevano al movimento comunista. Gli altri provenivano da ambienti liberali non certo favorevoli alla nascita di una repubblica sovietica e vicini alla monarchia jugoslava.

Ma questo non importava ai giudici del Tribunale speciale: il processo di Trieste fu pensato come uno spettacolo giudiziario volto a colpire in modo definitivo la rappresentanza politica e intellettuale della minoranza slovena presente in Italia, "One of the most spectacular political trial in many years" come lo definì allora l’inviato del New York Times.

L’italianizzazione forzata. Si tratta di una minoranza che, fin dal 1920 fu l’oggetto di una violenta politica di italianizzazione, nonostante il governo italiano, al momento del passaggio dei territori della Venezia Giulia all’Italia con il trattato di Rapallo, avesse assicurato di voler rispettare la libertà di lingua e di cultura sul confine orientale.

"I fatti – scrive Marta Verginella – smentirono in pieno le assicurazioni date". Vi furono infatti la chiusura coatta delle scuole con la lingua d’insegnamento slovena o croata e l’introduzione dell’italiano in tutte le scuole del Regno; il divieto di pubblicare 31 testate periodiche, di usare lo sloveno e il croato negli uffici pubblici, lo scioglimento di circa 400 circoli sportivi e culturali, istituti bancari, casse di credito e 300 cooperative con 125mila soci.

"Ogni espressione pubblica della nazionalità minoritaria, fosse essa slovena o croata, fu interpretata dalle autorità italiane, dalla fine degli anni venti in poi, alla stregua di un atto criminoso." Addirittura, dal 12 febbraio 1920, l’uso delle lingue minoritarie non fu più ammesso nei telegrammi per e dalla Venezia Giulia e le autorità fasciste cercarono di impedire scritte in sloveno e croato sulle tombe e sui nastri di corone e fiori in onore dei defunti. Furono proibiti anche i libri per l’infanzia in sloveno, così come i corsi di lingua e letteratura nelle lingue minoritarie.

Queste misure furono affiancate da un duro apparato repressivo: il Tribunale speciale eseguì fino al 1943 131 processi a carico di 544 imputati sloveni o croati e 40 furono le condanne a morte emesse contro appartenenti alla minoranza.

E poi il dramma dell’esilio: tra le due guerre gli emigrati sloveni e croati dalla Venezia Giulia furono oltre 100.000; 70.000 soltanto nel vicino Stato jugoslavo.

Una situazione che richiama alla mente quella della componente di lingua tedesca della popolazione del Sudtirolo, che subì tra le due guerre una politica di italianizzazione altrettanto violenta.

Dall’irredentismo all’annessione. Il libro di Marta Verginella ricostruisce, attraverso la parabola biografica di alcuni degli imputati nel processo del 1941 e di intellettuali e gente comune, le vicende della minoranza slovena in quegli anni bui fino allo spartiacque dell’invasione nazifascista, nel 1941, del regno jugoslavo.

Per la resistenza all’occupazione guidata da Tito, la questione delle minoranze era ancora in secondo piano e avrebbe dovuta essere risolta in prospettiva internazionalista; ma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 per tutto il fronte antifascista "l’inclusione di tutto il Litorale entro i confini della Jugoslavia veniva visto come una soluzione sempre più plausibile" e anche numerosi sloveni e croati in esilio furono spinti dal contesto bellico a passare da posizioni filomonarchiche al sostegno al movimento partigiano.

Il primo maggio 1945 i partigiani titini entrarono a Trieste e Gorizia e vi restarono per 40 giorni: si aprirono le porte delle carceri e dei campi di prigionia per delatori e collaborazionisti nazifascisti, ma anche per antifascisti italiani e sloveni, ritenuti pericolosi dalle nuove autorità. "Alcune centinaia di persone furono uccise dopo processi sommari. I loro corpi furono gettati negli abissi carsici, nelle foibe".

Epilogo. Enzo Collotti, su il Manifesto ha scritto de "Il confine degli altri": "Ci fa vedere come le sofferenze che gli italiani hanno rivendicato sempre e soltanto per sé, atteggiandosi costantemente a vittime, dimenticando quelle che come oppressori hanno inflitto agli altri, hanno fatto parte del vissuto anche degli sloveni".

Un contributo importante, quello di Marta Verginella, in tempi in cui alla riflessione storiografica si sostituisce il proclama nazionalista, che va nel senso dell’invito rivolto dallo storico Alessandro Casellato durante il convengo dedicato alle memorie degli esuli italiani dell’Istria organizzato dal Museo Storico a Trento alla vigilia del "giorno del ricordo" il 9 febbraio 2006. Casellato, parlando delle testimonianze dell’esilio, spiegava che "le memorie sono plurali, e lo storico deve tenerle presenti un po’ tutte". Anche quelle di vent’anni di italianizzazione forzata sul confine orientale, senza le quali quella che ci viene consegnata è una memoria monca, che dà ragione senza permetterci di capire.

La mattina del 15 dicembre 1941 i cinque "comunisti terroristi" Tomazic, Ivancic, Vadnal, Bobek e Kos furono fucilati presso il poligono di tiro di Opicina, nei pressi di Trieste.